LUNEDÌ 19 FEBBRAIO UNA GIORNATA MONDIALE APPOSITA: PARLA L’ESPERTO CHRISTOPHER BAKER
«Nella cultura africana esseri lenti è essere saggi. Come quando stai seduto sotto un albero con tutto il villaggio intorno, a parlare e raccontare»
«Nella cultura africana esseri lenti è essere saggi. Come quando stai seduto sotto un albero con tutto il villaggio intorno, a parlare e raccontare»
Di Paola Springhetti
«Un modello di sviluppo fondato sulla velocità ci porta ad essere sempre più stressati». «Il rimedio è anche l'ozio, per lo spirito, e la nostalgia, per ricordare»
Ozio, lentezza e nostalgia sono i tre ingredienti della ricetta di una felicità quotidiana, intima e condivisa nello stesso tempo, che non è la felicità chiassosa che molti sembrano rincorrere e che i media ci descrivono con dovizia di proposte, ma che è più vera e raggiungibile quest'ultima.
Questo, almeno, è quanto Christopher Baker, sostiene nel suo libro che si intitola, appunto, Ozio, lentezza e nostalgia (ed. Emi, euro 8,00). Alla base c'è un'idea a cui molti stanno arrivando da percorsi diversi ma convergenti nella riscoperta della lentezza e del tempo libero: non è un caso che lunedì 19 si celebri la giornata mondiale della lentezza, il cui scopo non è tanto quello di cercare di fermare il mondo per scendere, quanto quello di riappropriarsi nella quotidianità di uno dei beni più preziosi: il proprio tempo.
Per Baker, che ha lavorato a lungo nelle Ong e ora nel comitato italiano dell'Unicef, questa concezione viene da lontano: «Nasce da un percorso di critica all'attuale modello di sviluppo, basato solo sulla dimensione economica della vita. Abbiamo identificato il progresso con la velocità e abbiamo perso il controllo su di essa, non ne siamo neanche più coscienti: basta vedere i ragazzi di oggi, che crescono con genitori stressati e pensano che sia normale vivere con affanno».
Quali sono le cause di questo affanno?
«La principale è il lavoro. La maggior parte di noi lavora negli uffici o comunque è parte di una grande macchina, in cui non sa qual è il proprio vero contributo, che senso abbia svolgere il proprio compito: inserire un pezzo in una macchina, fare tante fotocopie, battere i tasti di una cassa… il nostro lavoro, in genere, ha pochissima dignità. Non c'è più il lavoro come mestiere, come produzione di cose fatte bene, su cui esercitare padronanza e paternità».
E perché non smettiamo?
«Abbiamo paura di guardarci allo specchio e chiederci: la vita cos'è? Abbiamo paura di fermarci a pensare».
Tutto questo ce lo siamo scelto?
«Veniamo da una storia occidentale segnata da millenni di pensiero razionale, di filosofia basata sul cartesiano "io penso, dunque sono". Solo la dimensione razionale conta, e tutto quello che non rientra in una categoria precisa lo scremiamo. Ma questo è un approccio riduzionista e riduttivo, perché ci porta a dare riconoscimento solo al benessere materiale. Ma le cose veramente belle della vita sono gratuite: innamorarsi, emozionarsi, stare nella natura…».
Cosa vuol dire vivere con lentezza?
«Se guardiamo ad altre culture, a quella africana per cominciare, scopriamo che ci sono momenti in cui la lentezza è saggezza. Come quando stai seduto sotto l'albero con tutto il villaggio intorno, a parlare e raccontare. Noi non siamo più capaci di ascoltare i nostri interlocutori fino a che hanno finito di parlare: una sorta di affanno intellettuale ci impedisce di dargli il tempo di farfugliare o di correggere una parola sbagliata. L'Africa non corre, perché ci sono poche macchine, ma cammina, e nel camminare si fanno soste. Dobbiamo fare prove di lentezza quotidiana, ascoltare il nostro vicino di casa, la vecchietta che dà da mangiare ai gatti…».
C'è il rischio di perdere il treno.
«La vita non è una gara. Vado spesso negli Stati Uniti e ogni volta constato quanto esasperata è la competitività. Ma alla fine il vincitore è uno solo, e tutti gli altri sono sconfitti. Meglio elaborare una filosofia dei perdenti, anche perché la vittoria è solitudine».
Nel libro lei collega la lentezza alla nostalgia. Nostalgia di che cosa?
«Dei ricordi che abbiamo e che sono per noi fonte di energia, anche quelli più duri. Sono il vero legame con la nostra esistenza, la compagnia che ci fa sconfiggere la solitudine. E poi, la storia va raccontata: è grazie a questo che il nostro cammino diventa una passeggiata condivisa».
Lei ripropone l'ozio come valore. Che cosa intende per ozio?
«Quello che intendo io è proprio il non fare un tubo, la pigrizia vera. È in questa condizione che il pensiero vaga lib ero e ci permette di contemplare la vita. Il creato chiede di essere contemplato, e noi dobbiamo trovare il tempo di vedere, ascoltare, annusare… C'è anche un dato biologico di cui tenere conto: l'uomo non è fatto per andare a tutta velocità 24 ore su 24».
Tutto questo sa un po' di fuga dalle responsabilità, dagli impegni, dai rapporti.
«È assolutamente il contrario. La società, imponendoci la velocità, ci costringe alla solitudine assoluta. Se mangiamo velocemente, non lo facciamo insieme agli altri e perdiamo la dimensione della convivialità. Ricordo certe piazzette dei paesi della Grecia, in cui le persone stanno ore sedute su sedili di paglia e parlano, osservano: questi sono luoghi di condivisione, mentre non lo sono i centri commerciali. Dobbiamo dare le dimissioni da una visione della vita che non dà la felicità: la vera ricchezza è un millimetro più in là e non ci fermiamo a guardarla».
Questo, almeno, è quanto Christopher Baker, sostiene nel suo libro che si intitola, appunto, Ozio, lentezza e nostalgia (ed. Emi, euro 8,00). Alla base c'è un'idea a cui molti stanno arrivando da percorsi diversi ma convergenti nella riscoperta della lentezza e del tempo libero: non è un caso che lunedì 19 si celebri la giornata mondiale della lentezza, il cui scopo non è tanto quello di cercare di fermare il mondo per scendere, quanto quello di riappropriarsi nella quotidianità di uno dei beni più preziosi: il proprio tempo.
Per Baker, che ha lavorato a lungo nelle Ong e ora nel comitato italiano dell'Unicef, questa concezione viene da lontano: «Nasce da un percorso di critica all'attuale modello di sviluppo, basato solo sulla dimensione economica della vita. Abbiamo identificato il progresso con la velocità e abbiamo perso il controllo su di essa, non ne siamo neanche più coscienti: basta vedere i ragazzi di oggi, che crescono con genitori stressati e pensano che sia normale vivere con affanno».
Quali sono le cause di questo affanno?
«La principale è il lavoro. La maggior parte di noi lavora negli uffici o comunque è parte di una grande macchina, in cui non sa qual è il proprio vero contributo, che senso abbia svolgere il proprio compito: inserire un pezzo in una macchina, fare tante fotocopie, battere i tasti di una cassa… il nostro lavoro, in genere, ha pochissima dignità. Non c'è più il lavoro come mestiere, come produzione di cose fatte bene, su cui esercitare padronanza e paternità».
E perché non smettiamo?
«Abbiamo paura di guardarci allo specchio e chiederci: la vita cos'è? Abbiamo paura di fermarci a pensare».
Tutto questo ce lo siamo scelto?
«Veniamo da una storia occidentale segnata da millenni di pensiero razionale, di filosofia basata sul cartesiano "io penso, dunque sono". Solo la dimensione razionale conta, e tutto quello che non rientra in una categoria precisa lo scremiamo. Ma questo è un approccio riduzionista e riduttivo, perché ci porta a dare riconoscimento solo al benessere materiale. Ma le cose veramente belle della vita sono gratuite: innamorarsi, emozionarsi, stare nella natura…».
Cosa vuol dire vivere con lentezza?
«Se guardiamo ad altre culture, a quella africana per cominciare, scopriamo che ci sono momenti in cui la lentezza è saggezza. Come quando stai seduto sotto l'albero con tutto il villaggio intorno, a parlare e raccontare. Noi non siamo più capaci di ascoltare i nostri interlocutori fino a che hanno finito di parlare: una sorta di affanno intellettuale ci impedisce di dargli il tempo di farfugliare o di correggere una parola sbagliata. L'Africa non corre, perché ci sono poche macchine, ma cammina, e nel camminare si fanno soste. Dobbiamo fare prove di lentezza quotidiana, ascoltare il nostro vicino di casa, la vecchietta che dà da mangiare ai gatti…».
C'è il rischio di perdere il treno.
«La vita non è una gara. Vado spesso negli Stati Uniti e ogni volta constato quanto esasperata è la competitività. Ma alla fine il vincitore è uno solo, e tutti gli altri sono sconfitti. Meglio elaborare una filosofia dei perdenti, anche perché la vittoria è solitudine».
Nel libro lei collega la lentezza alla nostalgia. Nostalgia di che cosa?
«Dei ricordi che abbiamo e che sono per noi fonte di energia, anche quelli più duri. Sono il vero legame con la nostra esistenza, la compagnia che ci fa sconfiggere la solitudine. E poi, la storia va raccontata: è grazie a questo che il nostro cammino diventa una passeggiata condivisa».
Lei ripropone l'ozio come valore. Che cosa intende per ozio?
«Quello che intendo io è proprio il non fare un tubo, la pigrizia vera. È in questa condizione che il pensiero vaga lib ero e ci permette di contemplare la vita. Il creato chiede di essere contemplato, e noi dobbiamo trovare il tempo di vedere, ascoltare, annusare… C'è anche un dato biologico di cui tenere conto: l'uomo non è fatto per andare a tutta velocità 24 ore su 24».
Tutto questo sa un po' di fuga dalle responsabilità, dagli impegni, dai rapporti.
«È assolutamente il contrario. La società, imponendoci la velocità, ci costringe alla solitudine assoluta. Se mangiamo velocemente, non lo facciamo insieme agli altri e perdiamo la dimensione della convivialità. Ricordo certe piazzette dei paesi della Grecia, in cui le persone stanno ore sedute su sedili di paglia e parlano, osservano: questi sono luoghi di condivisione, mentre non lo sono i centri commerciali. Dobbiamo dare le dimissioni da una visione della vita che non dà la felicità: la vera ricchezza è un millimetro più in là e non ci fermiamo a guardarla».
«Avvenire» del 16 febbraio 2007
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