di Massimo Gramellini
Com’era non facile ma facilissimo prevedere, il decreto sul calcio è approdato in Parlamento, per la precisione al Senato, ed è subito partito il tentativo di svuotarlo. Da destra e da sinistra, non una sola voce si è alzata in sua difesa: amici degli ultrà e lobbisti delle società con contorno di garantisti surreali, tutti affratellati nella lotta contro le misure decise dal governo dopo l’assassinio del poliziotto di Catania.
È il destino inesorabile delle leggi all’italiana, che nascono sull’onda di una forte emozione e poi, appena l’ira sbollisce, smarriscono la loro ragion d’essere per strada.
Si infarciscono di deroghe ed eccezioni che le spolpano dall’interno come tarli. Sono leggi con la retromarcia incorporata, capolavori di democrazia estenuata che partono dall’obiettivo di risolvere un problema ma finiscono sempre per perseguirne un altro - mettere tutti d’accordo - che purtroppo è inconciliabile col primo.
La vicenda degli stadi è emblematica di un tema cruciale della nostra epoca. Il controllo del territorio. Gli inglesi l’hanno risolta nell’unico modo possibile, cambiando in pochi anni oltre il 70% degli spettatori e cioè sostituendo gli hooligans con le famiglie. Ogni legge sensata non può che avere lo stesso obiettivo: rendere la vita impossibile a quei professionisti del tifo che considerano la curva un porto franco, usano il calcio come paravento per i loro affari ed esercitano un effettivo potere di interdizione e di ricatto sui presidenti. Non tutti gli ultrà: una parte. Ma protetta dall’omertà di chi ha interesse a coprirli per paura, interesse o malinteso senso dell’onore.
Il decreto Amato va nella giusta direzione, ma avrebbe bisogno di essere sostenuto da un’unità di intenti che semplicemente non esiste. Non esiste fra i tanti ragazzi perbene del tifo organizzato, spesso più affascinati che offesi dalla minoranza che traffica al loro fianco. Non esiste fra i presidenti, che le famiglie allo stadio le danno ormai per perse, accontentandosi di vendere loro lo spettacolo in tv. Ma non esiste neppure fra i politici che invece delle curve frequentano la tribuna vip, e senza neppure pagare il biglietto.
Va rivalutato il cinismo di quel vecchio arnese da Prima Repubblica di Matarrese. Nell’esprimere a caldo la sua volontà di andare avanti imperterrito col calcio di sempre ha soltanto peccato di scarso tempismo. Avrebbe dovuto aspettare almeno i funerali della vittima. Adesso, infatti, l’intero arco costituzionale la pensa come lui e non ha più nessuna remora a urlarlo dai banchi del Senato. Per ex missini e comunisti gli ultrà più loschi e violenti vanno capiti, specie quando hanno certe idee politiche: mica vorremo privarli del sacrosanto diritto di trattare lo stadio come se fosse casa loro? Se ci sono dei criminali in mezzo al branco, filosofeggiano i diessini alla D’Ambrosio, che si perseguano con le garanzie consuete, e comunque lo Stato è impotente, inutile metterli dentro se tanto poi arriva un indulto e li ributta fuori. E le società? Poverette, si commuovono Vizzini e i berluscones, che colpa ne hanno di quello che succede? Con tutte le tasse che pagano ci manca ancora che debbano rispondere delle malefatte dei delinquenti o, addirittura, aiutare la polizia a stanarli.
È un eterno ritorno al punto di partenza. Dalle pensioni alle privatizzazioni al calcio, assistiamo al girotondo di una classe dirigente decrepita, che si riempie la bocca di istanze e riformismi ma in realtà vuole cambiare il meno possibile, perché nel nuovo scenario non vede mai un’opportunità di evoluzione, ma solo il rischio di perdere brandelli della propria influenza.
«La Stampa» del 16 febbraio 2007
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