di Aldo Grasso
Commentando le immagini della partita Napoli-Piacenza - immagini di spalti desolatamente vuoti - il telecronista di Sky ha parlato ieri di «silenzio irreale». E invece non c’era niente di più reale di quel silenzio: la cosa più pulita di questa ripresa del calcio dopo la morte del commissario Filippo Raciti. Non i gol, non il tifo contenuto, non le vittorie o le sconfitte, non le dichiarazioni del dopo-partita. Solo quel silenzio aveva qualcosa da dirci e l’abbiamo subito relegato nell’irreale. C’è molta fretta di riprendere il campionato, dimenticare gli scontri programmati di Catania, far ripartire la grande macchina mediatica che gonfia il calcio. Purtroppo il silenzio non ci appartiene più. Per questo applaudiamo ai funerali, applaudiamo durante il minuto di silenzio. La colpa più grande è che, ancora una volta, siamo stati incapaci di dare un valore simbolico alla morte di un poliziotto che faceva solo il suo dovere perché altri si divertissero. Non ne siamo più in grado, questa è la verità. Ci meritiamo gli stadi senza coreografie, ci meritiamo il calcio triste, sorvegliato, svuotato della sua essenza prima ancora che dei suoi tifosi. Nella tragedia, spiace rilevarlo, la cosa che più rattrista è il comportamento dei presidenti dei club, ben rappresentati da Antonio Matarrese. Dopo gli scandali, il processo e le stangatine pensavamo che il calcio avesse trovato il coraggio di imboccare strade diverse per darsi finalmente una credibilità. E invece tutto è come prima: per Ronaldo non si bada a spese, per la sicurezza, per un tornello in più si scatenano invece beghe da condominio. Lotito, che predica legalità, è vissuto come una macchietta. Sono state scritte migliaia di pagine sulla fenomenologia dell’ultrà (e molte di grande finezza intellettuale) ma le analisi sui presidenti dei club latitano: se il facinoroso organizzato è l’anello debole della catena calcistica che dire dell’anello forte? Dal recente vertice dei presidenti si ricava l’impressione che il calcio sia troppo importante per lasciarlo ai suoi attuali padroni: non sanno governarlo, incapaci di gestire una situazione di crisi e vedere lo sfascio cui vanno incontro. Facile dare la colpa agli ultrà, come se fossero la frangia impazzita di un mondo perfetto. Facile dire «ricominciamo». Facile far finta che non sia successo niente e che la morte di uno sbirro sia il prezzo che il calcio ogni tanto deve pagare ai suoi dei sanguinari. C’è molta fretta di ricominciare, le trasmissioni sportive hanno tenuto sì e no tre giorni. Poi tutto come prima: i gol, gli acquisti sbagliati, gli errori degli arbitri, San Siro aperto agli abbonati. Eppure oggi, se amiamo il calcio, dovremmo fare uno sforzo per capire cosa ci dice il silenzio reale degli stadi a porte chiuse.
«Corriere della sera» dell’11 febbraio 2007
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