di Stefano Zurlo
È l’anagrafe a lasciarci sgomenti. Il più giovane è nato nel 1985. Altri quattro sono venuti al mondo negli anni Ottanta, quando il drago brigatista sputava gli ultimi veleni mortali, due nel decennio precedente, quando i primi capi dell’eversione erano già dietro le sbarre. Ma sì, dobbiamo ammetterlo: fra Milano, Padova e Treviso è cresciuta una nuova generazione di terroristi. Chi li aveva preceduti si era pentito o dissociato o almeno aveva proclamato la ritirata strategica: in poche parole aveva ammesso la sconfitta. Certo, c’erano stati gli omicidi Biagi e D’Antona e poi la sparatoria sul treno, ma li avevamo catalogati come colpi di coda del mostro, come la proiezione allucinata dell’ideologia e di un mondo scomparsi per sempre. Ora vediamo il volto delicato di una ragazza padovana, i profili qualunque di molti dei quindici arrestati e ci chiediamo: da dove sbucano? No, non può essere che gli ultimi «giapponesi» irriducibili abbiamo clonato nella giungla dei loro ragionamenti primordiali una nuova generazione di terroristi. Eppure.
Eppure, ancora una volta, è da lì, dal passato che non passa anche se viene nascosto sotto il tappeto, che occorre ripartire. Tutto comincia con la diaspora dell’universo brigatista, nei primi anni Ottanta quando i protagonisti di oggi non erano ancora nati o erano bambini. Le Br si sfaldano: il troncone principale, le Br per la Costruzione del Partito comunista combattente, sembra il più longevo: firma il delitto Ruffilli, nel 1988, che chiude un’epoca, e ricompare, addirittura nel 1999, in via Salaria a Roma, quando muore il professor D’Antona. È questo gruppo di fuoco, radicato fra Roma e la Toscana, quello che ha monopolizzato le cronache di questi anni: Marco Galesi, morto insieme ad un agente della Polfer, Nadia Lioce, erede di un rituale antico e ormai inservibile, Cinzia Banelli, forse pentita e forse no. Un piccolo girotondo di nostalgici sanguinari, avvitati su se stessi.
Ma accanto a questi fantasmi, ci spiega ora il giudice Guido Salvini, c’era e c’è un altro spezzone: l’Unione dei Comunisti Combattenti, «responsabile nel 1986-87 del ferimento dell’economista Antonio da Empoli e dell’uccisione del generale Licio Giorgeri». Questo gruppo non è mai scomparso, ma come i fiumi del Carso si è inabissato, «anche grazie alla latitanza in Francia di alcuni militanti» coperti dalla benevolenza delle autorità di Parigi, ha saputo uscire dalla casamatta di un’ortodossia stantia e ha svolto «un lavoro politico, inserendosi in situazioni come le lotte sociali in fabbrica, e le contestazioni contro la Tav in Val di Susa e le proteste violente nelle periferie». Ecco così la pesca, per nulla miracolosa, fra i sindacalisti arrabbiati o i ragazzi dei centri sociali del Nord Est.
È presto per tentare analisi sociologiche ma forse occorrerà rivedere i giudizi tranchant di chi riteneva la Rivoluzione un macigno che nessuno poteva più sollevare. No, se si adatta il concetto ai nostri tempi elastici e incerti: una rivoluzione a piccoli passi, compatibili con la realtà frammentata della nostra società, un piede nel mondo antagonista e tutti e due attrezzati per una lunga marcia, come insegnato dal vecchio e intramontabile Mao.
Deliri? Certo, ma fatte le debite proporzioni, anche le Br nacquero da un atto di arroganza. Era l’agosto 1970 quando i Curcio, i Franceschini e gli altri si ritrovarono in una trattoria di Pecorile. Da lì cominciò tutto, su su fino al sequestro Moro e al bagno di sangue dell’ultimo scorcio degli anni Settanta. Le Br coagulavano la rabbia dei giovani di Reggio Emilia che erano cresciuti a pane e Pci e che la rivoluzione, quella predicata dal compagno Secchia, la volevano fare per davvero: i Gallinari, i Franceschini, gli Azzolini, che cantavano i morti dei moti del 1960 e mitizzavano le imprese dei partigiani. Trovarono Curcio, uscito da quel laboratorio che era l’università di Trento, e poi i milanesi, come Moretti, che volevano far esplodere le contraddizioni delle fabbriche: dalla Siemens alla Pirelli.
Le Br uccisero per la prima volta a Padova, nel 1974. Due anni dopo, nel 1976, compariva anche l’altra grande sigla dell’eversione: Prima linea, nata dopo lunga incubazione da una costola di Lotta continua. Più movimentista e meno stalinista, più in linea con lo spirito del Settantasette. Se le Br nacquero di fatto a Reggio Emilia, Prima Linea non è pensabile senza Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, la città delle acciaierie e, per fare un nome, di Sergio Segio, il comandante Sirio, come il padre, comunista istriano che aveva scelto Tito e che dal regime jugoslavo, con una carambola ideologica, era stato ricompensato con la prigionia nel gulag di Goli Otok.
Immagini lontane. Che ora tornano in uno strano frullatore: dall’esperienza delle Br arriva la traiettoria di Alfredo Davanzo, a lungo latitante a Parigi, nei Colp, ovvero una filiale di Prima Linea, nasce Bruno Ghirardi, interrogato dallo stesso giudice Salvini più di vent’anni fa. Sembravano fossili, anticaglie di un passato da convegno o da saggio, hanno saputo adattarsi ai nostri tempi. E alle inquietudini dei nostri figli. Ora, al di là delle suggestioni che sempre ci consegna la storia, si dovrà capire l’ampiezza di questo cerchio di fuoco. Così irreale, ma, a quanto pare, seducente.
«Il Giornale» del 13 febbraio 2007
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