I nuovi mammiferi italiani
di Caterina Soffici
Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia? Perché qui bisogna essere chiari. C’è quella del «Tengo famiglia» di Leo Longanesi, il motto che lo scrittore proponeva di stampare sulla bandiera tricolore. Tipologia ben florida che prospera insieme con il sempreverde familismo arcitaliano.
Poi c’è l’agglomerato domestico italico, quello che faceva scrivere a Giorgio Manganelli: «Non dispongo di una famiglia, e ne sento la mancanza. Non ho, ad esempio, una moglie indifesa da percuotere e dei bambini da terrorizzare con mirabili malumori cosmici». (Il passo è tratto da uno dei corsivi raccolti da Marco Belpoliti per Adelphi sotto il titolo Mammifero italiano, pagg. 150, euro 10, sul quale torneremo dopo). Anche questa tipologia non se la passa male, come dimostrano gli esempi gentilmente forniti dalla cronaca quotidiana.
Infine c’è la Famiglia Italiana Tradizionale, fatta di padre, madre, figli, zii, nonni, suocere, nipoti, cugini eccetera. E questa versa in condizioni gravissime. Tutti crediamo che sia la struttura portante di quel complesso edificio che è la nostra società. Siamo convinti che questo tipo di famiglia sia ancora il nostro tratto distintivo rispetto agli altri popoli europei. Invece la Famiglia Italiana Tradizionale non esiste più. Con un paradosso tipico di questo Paese, si discute di Pacs, ci si scanna sulle coppie di fatto e sulle unioni più o meno civili, ma nessuno si è accorto che si tenta di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati.
Gli italiani sono convinti di essere un popolo di tanti figli, e di grandi famiglie. Invece è proprio il contrario. La cruda verità ce la forniscono i dati raccolti da Roberto Volpi, di professione statistico, nel libro La fine della famiglia (Mondadori, pagg. 152, euro 16,50), sottotitolo: «La rivoluzione di cui non ci siamo accorti».
Snocciolare numeri è sempre noioso, quindi limitiamoci a quelli imprescindibili: siamo la nazione che fa meno figli al mondo, un quarto delle coppie non ha figli e la maggioranza delle altre hanno un figlio solo. L’unica cosa aumentata dagli anni Settanta ad oggi è il numero delle famiglie, e proprio questo ha ucciso la famiglia. Sembra un discorso assurdo, ma non lo è: i «nuclei familiari» sono cresciuti del 36 per cento (quasi sei milioni in più in termini assoluti) e ciò perché le famiglie composte da un’unica persona (single, vedova o divorziata) sono ormai un quarto del totale. A fini statistici e all’anagrafe comunale li chiamano «nuclei familiari». Ma lo stesso Volpi si chiede: «Fino a quale punto di riduzione numerica può giungere la famiglia perché si possa ancora parlare, in senso vero e proprio, di famiglia?».
I dati dell’Istat su cui si basa la ricerca di Roberto Volpi sono freddi ma incontestabili. Il discorso si fa più controverso quando si cerca di spiegare questa rivoluzione. Per Volpi tutto è iniziato nel 1975, con la legge sul divorzio. «Perché i figli in Italia si sono sempre fatti e si continuano a fare all’interno del matrimonio». Spiega Volpi, in un’interessante carrellata che confronta i dati italiani con quelli europei, che «l’apporto delle unioni di fatto all’insieme delle nascite annue in Italia, diversamente da quello che avviene in tante parti d’Europa, è decisamente marginale». In sostanza solo 17 bambini ogni cento (contro i 40 dell’Europa) nascono fuori dal matrimonio.
A questo punto troverete grappoli di gente disposta a sostenere che la disgregazione della famiglia nasce con l’avvento delle legislazioni laiche e laiciste, che la caduta dei valori cattolici ha portato a questo risultato. E dall’altra parte ne troverete altrettanti che argomenteranno: la laicissima Francia dei Pacs, a differenza della cattolica Italia ha un tasso di natalità doppio del nostro e una legislazione per la donna e la famiglia tra le più avanzate d’Europa. Ma noi non vogliamo cadere in questo giochetto, che lasciamo a chi si diletta con le discussioni sui Pacs.
Qui vogliamo soffermarci su un altro dato, che pare ancora più agghiacciante: in Italia ci sono 10 milioni di figli unici. Sapete cosa significa questo? Dieci milioni di mammoni, viziati, coccolati, straprotetti, che a trent’anni sono ancora lì a chiedersi cosa vorranno fare da grandi. E questo scusate, ci pare ben più grave. Che futuro può avere un Paese che non fa figli, e quei pochi che produce saranno dei bambocci? Perché le due cose non si possono disgiungere. Dovunque leggiamo che se i giovani di oggi non si sposano più, non decidono di metter su famiglia è tutta colpa della precarietà, della legge Biagi, degli affitti troppo cari, dei contratti a progetto.
In verità dietro queste belle parole c’è una generazione di individui sempre pronti a scappare di fronte alle responsabilità e a rifugiarsi nel proprio egoismo. Saranno i figli del disimpegno? Degli anni Ottanta? Metter su famiglia vuol dire rinunciare a tante belle comodità. La camicia si può mandare a stirare da mammà, con un pannolino non si può fare. Una Repubblica fondata sul figlio unico è un problema sociale. Se in Italia ormai nascono meno bambini che in ogni altra parte del mondo, il fatto non andrebbe registrato solo come dato statistico, ma affrontato con legislazioni adeguate. Si discute tanto di liberalizzazioni e di riforme pensionistiche, ma di leggi per la famiglia non se ne parla neanche. Sfogliando l’elenco della collana Mondadori che pubblica il libro di Volpi cade l’occhio su altri titoli significativi: Raffaele Costa, L’Italia dei privilegi; Geminello Alvi, Una Repubblica fondata sulla rendita; Pietro Ichino: I Nullafacenti; Antonio Galdo, Guai a chi li tocca (L’Italia delle corporazioni). La fine della famiglia ci sta a pennello.
E per concludere torniamo sul disincantato Manganelli e ai suoi fulminanti corsivi, dove non a caso la famiglia è un tema intorno al quale ruota la sua personalissima indagine dell’Italia e dei suoi abitanti. Tra le sue citazioni più ricorrenti c’è quella di Orwell: «Quando si trova un coniuge ammazzato, la prima persona inquisita è l’altro coniuge: questo la dice lunga su quel che la gente pensa del matrimonio». Il nostro Paese, concludeva amaramente Manganelli, è in fondo una madre avara e insieme indulgente, che «non dà il dovuto ma si lascia insolentire», garantendo così una «lamentosa e innocua esistenza».
Poi c’è l’agglomerato domestico italico, quello che faceva scrivere a Giorgio Manganelli: «Non dispongo di una famiglia, e ne sento la mancanza. Non ho, ad esempio, una moglie indifesa da percuotere e dei bambini da terrorizzare con mirabili malumori cosmici». (Il passo è tratto da uno dei corsivi raccolti da Marco Belpoliti per Adelphi sotto il titolo Mammifero italiano, pagg. 150, euro 10, sul quale torneremo dopo). Anche questa tipologia non se la passa male, come dimostrano gli esempi gentilmente forniti dalla cronaca quotidiana.
Infine c’è la Famiglia Italiana Tradizionale, fatta di padre, madre, figli, zii, nonni, suocere, nipoti, cugini eccetera. E questa versa in condizioni gravissime. Tutti crediamo che sia la struttura portante di quel complesso edificio che è la nostra società. Siamo convinti che questo tipo di famiglia sia ancora il nostro tratto distintivo rispetto agli altri popoli europei. Invece la Famiglia Italiana Tradizionale non esiste più. Con un paradosso tipico di questo Paese, si discute di Pacs, ci si scanna sulle coppie di fatto e sulle unioni più o meno civili, ma nessuno si è accorto che si tenta di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati.
Gli italiani sono convinti di essere un popolo di tanti figli, e di grandi famiglie. Invece è proprio il contrario. La cruda verità ce la forniscono i dati raccolti da Roberto Volpi, di professione statistico, nel libro La fine della famiglia (Mondadori, pagg. 152, euro 16,50), sottotitolo: «La rivoluzione di cui non ci siamo accorti».
Snocciolare numeri è sempre noioso, quindi limitiamoci a quelli imprescindibili: siamo la nazione che fa meno figli al mondo, un quarto delle coppie non ha figli e la maggioranza delle altre hanno un figlio solo. L’unica cosa aumentata dagli anni Settanta ad oggi è il numero delle famiglie, e proprio questo ha ucciso la famiglia. Sembra un discorso assurdo, ma non lo è: i «nuclei familiari» sono cresciuti del 36 per cento (quasi sei milioni in più in termini assoluti) e ciò perché le famiglie composte da un’unica persona (single, vedova o divorziata) sono ormai un quarto del totale. A fini statistici e all’anagrafe comunale li chiamano «nuclei familiari». Ma lo stesso Volpi si chiede: «Fino a quale punto di riduzione numerica può giungere la famiglia perché si possa ancora parlare, in senso vero e proprio, di famiglia?».
I dati dell’Istat su cui si basa la ricerca di Roberto Volpi sono freddi ma incontestabili. Il discorso si fa più controverso quando si cerca di spiegare questa rivoluzione. Per Volpi tutto è iniziato nel 1975, con la legge sul divorzio. «Perché i figli in Italia si sono sempre fatti e si continuano a fare all’interno del matrimonio». Spiega Volpi, in un’interessante carrellata che confronta i dati italiani con quelli europei, che «l’apporto delle unioni di fatto all’insieme delle nascite annue in Italia, diversamente da quello che avviene in tante parti d’Europa, è decisamente marginale». In sostanza solo 17 bambini ogni cento (contro i 40 dell’Europa) nascono fuori dal matrimonio.
A questo punto troverete grappoli di gente disposta a sostenere che la disgregazione della famiglia nasce con l’avvento delle legislazioni laiche e laiciste, che la caduta dei valori cattolici ha portato a questo risultato. E dall’altra parte ne troverete altrettanti che argomenteranno: la laicissima Francia dei Pacs, a differenza della cattolica Italia ha un tasso di natalità doppio del nostro e una legislazione per la donna e la famiglia tra le più avanzate d’Europa. Ma noi non vogliamo cadere in questo giochetto, che lasciamo a chi si diletta con le discussioni sui Pacs.
Qui vogliamo soffermarci su un altro dato, che pare ancora più agghiacciante: in Italia ci sono 10 milioni di figli unici. Sapete cosa significa questo? Dieci milioni di mammoni, viziati, coccolati, straprotetti, che a trent’anni sono ancora lì a chiedersi cosa vorranno fare da grandi. E questo scusate, ci pare ben più grave. Che futuro può avere un Paese che non fa figli, e quei pochi che produce saranno dei bambocci? Perché le due cose non si possono disgiungere. Dovunque leggiamo che se i giovani di oggi non si sposano più, non decidono di metter su famiglia è tutta colpa della precarietà, della legge Biagi, degli affitti troppo cari, dei contratti a progetto.
In verità dietro queste belle parole c’è una generazione di individui sempre pronti a scappare di fronte alle responsabilità e a rifugiarsi nel proprio egoismo. Saranno i figli del disimpegno? Degli anni Ottanta? Metter su famiglia vuol dire rinunciare a tante belle comodità. La camicia si può mandare a stirare da mammà, con un pannolino non si può fare. Una Repubblica fondata sul figlio unico è un problema sociale. Se in Italia ormai nascono meno bambini che in ogni altra parte del mondo, il fatto non andrebbe registrato solo come dato statistico, ma affrontato con legislazioni adeguate. Si discute tanto di liberalizzazioni e di riforme pensionistiche, ma di leggi per la famiglia non se ne parla neanche. Sfogliando l’elenco della collana Mondadori che pubblica il libro di Volpi cade l’occhio su altri titoli significativi: Raffaele Costa, L’Italia dei privilegi; Geminello Alvi, Una Repubblica fondata sulla rendita; Pietro Ichino: I Nullafacenti; Antonio Galdo, Guai a chi li tocca (L’Italia delle corporazioni). La fine della famiglia ci sta a pennello.
E per concludere torniamo sul disincantato Manganelli e ai suoi fulminanti corsivi, dove non a caso la famiglia è un tema intorno al quale ruota la sua personalissima indagine dell’Italia e dei suoi abitanti. Tra le sue citazioni più ricorrenti c’è quella di Orwell: «Quando si trova un coniuge ammazzato, la prima persona inquisita è l’altro coniuge: questo la dice lunga su quel che la gente pensa del matrimonio». Il nostro Paese, concludeva amaramente Manganelli, è in fondo una madre avara e insieme indulgente, che «non dà il dovuto ma si lascia insolentire», garantendo così una «lamentosa e innocua esistenza».
«Il Giornale» del 7 febbraio 2007
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