Il nuovo saggio di Paul Berman, intellettuale liberal americano ma a favore dell’intervento contro Saddam
di Dino Messina
«L’abbiamo tanto amata, la rivoluzione» scrisse Daniel Cohn-Bendit, Dany il Rosso quando era leader della contestazione europea del Sessantotto, diventato Dany il Verde quando si sedette sul seggio di europarlamentare a Strasburgo. Ne aveva fatta di strada Dany, così come il suo amico Bernard Kouchner, il fondatore di Medici senza frontiere che l’aveva aiutato a scappare dalla Francia e rifugiarsi in Germania. O il supercontestatore Joschka Fischer, nel 1973 lanciatore di sassi contro la polizia durante un corteo di solidarietà per la terrorista Ulrike Meinhof, frequentatore di un congresso ad Algeri in cui l’Organizzazione per la liberazione della Palestina aveva affermato tra i suoi scopi la distruzione di Israele, quindi leader del movimento Verde in Germania, sostenitore della non violenza e poi da ministro degli Esteri nel governo Schröder dell’intervento con la Nato in Kosovo nel 1999 al grido di «Mai più Auschwitz». Mai i tre leader della contestazione europea avrebbero immaginato di realizzare la loro utopia sotto le bandiere della Nato, da loro considerata trent’anni prima il mastino dell’imperialismo americano in Europa. Eppure la generazione che aveva predicato l’utopia al potere, che era cresciuta nel mito della Resistenza al nazifascismo trovò il suo maggiore momento di unione in quell’intervento armato. Per poi dividersi drammaticamente di fronte a un altro tentativo di esportare con la violenza la libertà, sempre in nome dei diritti umani: la guerra in Iraq per abbattere la dittatura di Saddam Hussein. Ecco il cuore della questione attorno a cui ruota un saggio vibrante appena uscito da Baldini Castoldi Dalai, Idealisti e potere - La sinistra europea e il Sessantotto, scritto da uno degli intellettuali liberal più spregiudicati degli Stati Uniti, Paul Berman, pure lui uomo di sinistra ed ex sessantottino come i protagonisti del libro, ma a favore dell’intervento in Iraq. Non perché si sia convertito al pensiero neoconservatore che ha ispirato i governi di Bush jr., ma perché, spiega nel capitolo conclusivo, le aspirazioni ideali di uno Joschka Fischer che nel novembre 2003 a Princeton affermava che «lo status quo in Medio Oriente non può essere tollerato né dagli Usa, né dall’Europa, né dallo stesso Medio Oriente» non erano molto distanti dalle posizioni di George W. Bush, che qualche giorno dopo affermava: «Sarebbe sconsiderato accettare lo status quo». Il che dimostra secondo Berman che lo scisma atlantico, «pur con tutte le sue gravi conseguenze, non fu mai così profondo come a volte sembrò. Fu uno scisma politico ma non uno scisma filosofico sotto ogni aspetto». Berman ci racconta che ci sono diversi modi in cui l’élite politica formatasi nel Sessantotto ha risposto alla domanda se è possibile esportare la libertà. Joschka Fischer, Bernard Kouchner, Daniel Cohn-Bendit, Adriano Sofri, Adam Michnik, il leader della contestazione di Varsavia, si sono trovati d’accordo nell’intervenire contro il dittatore serbo Slobodan Milosevic. Perché hanno reagito in maniera diversa davanti alla guerra in Iraq? Per Kouchner, che era stato rappresentante dell’Onu a Pristina, non bisognava considerare con due pesi e due misure i massacri di Srebrenica e gli stermini della popolazione curda. Cohn-Bendit, che aveva trovato gioco facile nell’ironizzare con il neoconservatore Richard Perle a proposito di un «bolscevismo degli Stati Uniti» si era trovato un po’più in difficoltà davanti a Michnik, rappresentante della nuova Europa. Al francese che riteneva la guerra per il Kosovo legittima perché aveva ottenuto l’approvazione della maggioranza nel Consiglio di sicurezza Onu e che non c’erano ragioni per sostenere il secondo intervento in Iraq del 2003, dopo che si era persa l’occasione del 1991, il polacco obiettava: «Che cosa sarebbe successo se la Polonia si fosse trovata ancora in pericolo? Chi avrebbe difeso i polacchi? Non certo la Francia». Il dramma di una generazione è rappresentato non soltanto da questi confronti tra europei, ma anche dai percorsi di due tra i maggiori intellettuali mediorientali, l’iraniana Azar Nafisi e l’iracheno Kakan Makiya, sessantottini passati dall’infatuazione per il comunismo, durante gli studi in Occidente, alla scoperta che tra i totalitarismi non c’è tanta differenza. Come rifletté l’autrice di Leggere Lolita a Teheran dopo l’ascesa di Khomeini: «Se fossero saliti al potere quelli di sinistra avrebbero fatto esattamente la stessa cosa».
Paul Berman scrive su «The New York Repubblic», «The New York Times Magazine» ed è tra i direttori della rivista «Dissent». Tra i suoi libri «Terrore e liberalismo» e «Sessantotto». Ora da Baldini Castoldi Dalai esce «Idealisti e potere - La sinistra europea e l’eredità del Sessantotto» (traduzione di Lorenzo Lilli, pp. 329, euro 18,50).
«Corriere della sera« del 16 febbraio 2007
Nessun commento:
Posta un commento