A Berlino una controversa esposizione racconta l’uso politico dell’arte
di Paolo Valentino
Mussolini, Stalin, Hitler,Roosevelt: stessi manifesti di propaganda
E se l’uso propagandistico dell’arte non fosse poi esteticamente così dissimile in una dittatura e in una democrazia? Due poster, entrambi con un martello impugnato da un muscoloso avambraccio, sono così diversi se uno ha sullo sfondo una croce uncinata e l’altro la torcia della Statua della libertà? Se uno recita «il lavoro vince» e l’altro «lavora per rimanere libero»? È l’azzardo urticante ma ricco di suggestioni, offerto alla riflessione del pubblico da una mostra inaugurata in questi giorni al Deutsches Historiches Museum di Berlino. Aperta fino al 29 aprile, «Arte e propaganda nella lotta delle nazioni. 1930-1945» giustappone la creatività di Stato prima e durante la Seconda guerra mondiale nelle tre dittature totalitarie, Germania, Unione Sovietica e Italia, a quella negli Stati Uniti del New Deal roosveltiano. Quasi quattrocento tra dipinti, sculture, manifesti, filmati originali e reperti d’epoca, suddivisi in quattro spazi, per insinuare la tesi quantomeno di una «parentela lontana» tra le forme di autorappresentazione politica dei tre regimi e della stabile democrazia americana. Un approccio controverso e già molto discusso, tanto che il curatore dell’allestimento, Hans-Joerg Czech, si è sentito in dovere di precisare che non è sua intenzione accostare gli Usa alle tragiche dittature del secolo breve e men che meno offrire uno spunto ai tentativi di relativizzare gli orrori del nazismo e del comunismo. La polemica non toglie nulla, anzi, all’interesse e all’arguta bellezza di una mostra, resa possibile soprattutto grazie a Mitchell Wolfson, figura unica di collezionista, che da decenni raccoglie materiali di propaganda e pubblicità dal 1880 al 1945, per la sua Wolfsonian Foundation, con sedi a Miami e a Genova. L’altro scrigno al quale attinge l’esibizione berlinese sono i 700 dipinti, che per quasi mezzo secolo rimasero sigillati nella dogana centrale di Monaco di Baviera: costituivano il patrimonio artistico del nazismo, opere ad alto contenuto ideologico di proprietà del regime hitleriano, che gli americani misero al sicuro dopo il 1945 per paura che diventassero oggetto di culto per nostalgici. Solo nel 1998, la collezione è stata restituita alla Repubblica Federale Tedesca. Ogni stanza della mostra berlinese ha al centro uno spazio, delimitato da quattro paraventi, uno per Paese, che si fronteggiano ognuno con un grosso dipinto e delimitano una sezione interna: «I leader dello Stato», «Le persone», «Il lavoro e l’architettura», «La guerra». In singolare convergenza realista, anche la scelta cromatica è identica, Stalin e Roosevelt sorridono mitemente ai loro popoli, mentre Hitler in divisa bruna si distingue soltanto per uno sguardo più severo. Il solo Mussolini, in «Sintesi Fascista» di Alessandro Bruschetti, viene ritratto nei profili spezzati di una moderna allegoria futurista. Le similitudini si rincorrono di sezione in sezione: ma se suona normale che gli atleti del russo Alexander Deineka siano identici ai podisti del tedesco Gerhard Keils, più impressionante è che i progetti urbanistici americani per l’ampliamento del Mall di Washington a Est del Campidoglio e quelli di Speer per l’asse Nord-Sud di Berlino-Germania abbiano più di un’analogia, non lontana neppure dai faraonici piani stalinisti e mussoliniani per Mosca e l’Urbe. È la guerra, però a segnalare una certa distanza: per la democrazia americana, la propaganda è uno degli strumenti della mobilitazione, per le dittature è il fine di ogni arte. In Usa il mandato per l’artista è di sottolineare il carattere difensivo della guerra, nei Paesi totalitari sono i destini inevitabilmente vittoriosi di una nazione e di un popolo. La differenza estetica è salva. Ma quanta fatica, quando la committenza dell’arte è politica.
«Corriere della sera» del 20 febbraio 2007
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