Una mostra presenta i pittori protagonisti di un pensiero creativo che ha contagiato anche la musica, la letteratura e il cinema
di Alessandro Piperno
Ciò che il giovane sociopatico Charles Baudelaire, nell’atto di recidere i suoi fiori avariati, non può sapere è che, con quel gesto, sta fondando una nuova civiltà. E come spesso accade a questi scalognati geni fondativi (pensate a Kafka) Baudelaire muore senza saperlo. Per noi, da qui, è più semplice: ci basta valutare l’entusiasmo con cui ci rivela come in lui tutto diventi allegoria; o rileggere la lettera che scrive a Wagner per dichiarargli l’ammirazione per una musica che sfiora solo cose grandi e profonde; o considerare il modo in cui intuisce che ogni abitante della metropoli è il potenziale eroe di un poema epico... sì, insomma, ci basta assemblare questi elementi per capire che Baudelaire è l’inconsapevole inventore del Simbolismo: il movimento artistico che segna l’ultimo ventennio del Diciannovesimo secolo. Certo, certo, se leggete le storie letterarie apprenderete che il Simbolismo nasce in Francia nel 1886, con il manifesto di Moréas. Vi verrà spiegato che il Simbolismo, per essere inteso, va storicizzato. Il rischio altrimenti è di perdersi in asserzioni generiche. E che quindi quel manifesto va preso sul serio. Ma in realtà esso giunge in un ritardo ridicolo, quando i protagonisti di quella stagione sono morti e agonizzanti, e quando i nuovi eroi sono poco più che adolescenti. Insomma il barman arriva quando il cocktail simbolista è servito, e l’avventore sa già che si tratta d’un intruglio che può dare il voltastomaco. Se desiderate farvi un’idea del suo sapore mescolate la melanconia di Verlaine alla rabbia delinquenziale di Lautréamont, la tracotanza rivoluzionaria di Rimbaud alle stralunatezze di Laforgue... Senza dimenticare l’ingrediente essenziale: l’aspirazione di Mallarmé a scrivere un unico libro - sacro e incomprensibile - che racchiuda tutti i significati. Insomma, come si sarà inteso, la ricetta di questa bevanda è stramba e contraddittoria. E i suoi effetti alcolici troppo persistenti per estinguersi in una sola notte parigina. E allora cos’è il simbolismo? Edmund Wilson pensava fosse uno state of mind che, d’un tratto, aveva colonizzato l’Occidente, come un’epidemia. Il Simbolismo come degenerazione genetica del Romanticismo? Esattamente. Una metafora sanitaria grazie alla quale Wilson poté analizzare scrittori come Yeats, Valéry, Eliot, Proust, Joyce attraverso il diaframma della poetica simbolista. Ma l’obiezione è sempre quella: se tutto è simbolismo allora niente è simbolismo. Sicché per capire chi sia il simbolista, vi consiglio di pensare a un giovane romantico, platonizzato, che odia la natura e la vita che scorre, la cui aspirazione consiste nello scoprire cosa celano le apparenze. Ecco perché il simbolista odia gli oggetti e il corpo (gli scafandri della verità). È nauseato dall’incombente muta compattezza della materia. La materia per lui è un ostacolo. Non a caso Mallarmé diceva che «definire un oggetto è annullare i tre quarti del godimento della poesia». Anche se bisogna subito chiarire che, sebbene il simbolista corra il rischio di innamorarsi di concetti, astrazioni, epifanie, ha bisogno dei sensi per sfondare il muro dell’inconoscibile. Insomma il simbolista è un uomo sensuale che fa un uso mistico delle cose che incontra. Ecco perché il termine «Simbolo» non basta per capire il Simbolismo. Il «Simbolo» è troppo intelligibile, troppo immediatamente identificabile per piacere al simbolista. Sarebbe più appropriato parlare di «essenza». Dal che si evince che tutti gli uomini che hanno l’abitudine di distillare essenze sono simbolisti. E che quindi il Simbolismo sia uno sguardo gettato sulla realtà. Anche il tizio che scoprendo un pelo bianco nella capigliatura della moglie sente quella scoperta come rivelatrice del tempo che fugge, è simbolista. Per non parlare del tipo che, trafitto durante una passeggiata metropolitana da un odore di patate fritte, identifica in quel miasma il senso della sua vita e della sua epoca... Perché il simbolista è un individuo sentimentale morbosamente attratto dalle esperienze emblematiche. E se tutto quel che ho detto è vero, si capirà che non basta l’avvento del Ventesimo secolo a spazzare via il Simbolismo. Perché esso non è debellabile. Al punto che la storia letteraria ed artistica del ‘900 potrebbe essere letta come una guerra tra coloro che hanno ceduto alle seduzioni del Simbolismo e coloro che le hanno combattute. Chi sono i nemici del Simbolismo? Semplice: gli artisti che non sopportano avere sempre un piede dentro la vita, e l’altro fuori. Quelli che non amano auscultarsi in continuazione. Quelli che rifiutano la poetica delle epifanie perché hanno sete di vita in presa diretta. Un nome su tutti: Picasso. E’lui - con le sue maschere negre, con le sue scomposizioni, con la sua venerazione per la materia e con il suo odio per la psicologia e per le rarefazioni - ad aver dichiarato guerra alla poetica simbolista. È lui il grande rivoluzionario che mette fine a un’epoca. Ma sarebbe difficile affermare che Picasso, nel corso di tutta la sua opera, sia riuscito a difendersi dalle tentazioni del Simbolismo. Proprio perché esso ritorna fatalmente - subdolo e inestirpabile - dove meno te l’aspetti: in una inquadratura di Bergman o di Fellini, in giro di frase di Nabokov e perfino in un’esoterica scritta di Basquiat.
«Corriere della sera» del 15 febbraio 2007
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