L’ordine di distruggere il futuro bestseller arrivò dopo che l’editore aveva constatato la presenza di passi scottanti e «blasfemi»
Di Stefano Paolo
Riemerge l’edizione fantasma del capolavoro buttato al macero da Bompiani
Capitano a volte delle fortunate coincidenze. Nel forum «Leggere e scrivere» del Corriere on line, interviene da qualche anno, con pseudonimo, Giuseppe Cattadori, che lavorò tra il 1959 e il 1971 con Valentino Bompiani come capo dei correttori e poi come direttore della produzione. Qualche mese fa raccontò che un giorno arrivò in casa editrice Günter Grass per festeggiare l’imminente uscita del Tamburo di latta. Ecco il gustoso ricordo di Cattadori: «Bompiani volle organizzargli un ricevimento ed io lo andai a prendere in un albergo di via Manzoni. All’ingresso della casa editrice fummo accolti dalla centralinista che Eco aveva ribattezzato la Lolitona. Grass non mancò di rivolgerle subito un complimento in tedesco ma molto eloquente...». A quel ricevimento c’erano tutti: redattori, editor, l’agente Linder, gli Ottieri. L’episodio della Lolitona era divertente, ma nel racconto di Cattadori c’era qualcosa che non quadrava: la prima edizione del Tamburo di latta in traduzione italiana uscì da Feltrinelli, nell’ottobre 1962. Com’era possibile che si festeggiasse l’uscita da Bompiani? Cattadori insisteva rammaricandosi però del fatto che «mancano le prove». Invece la prova c’è e dopo 45 anni possiamo tranquillamente dire che il primo romanzo del futuro premio Nobel, salutato come un capolavoro del Novecento e una bandiera politica dell’Europa liberata dal nazismo, fu stampato da Bompiani e gettato al macero. La prova fisica è una copia (l’unica sopravvissuta?) conservata da Paolo De Benedetti, allora redattore capo dei dizionari e della saggistica, oggi professore universitario di Giudaismo. Cartonato con copertina illustrata dall’autore, sovracoperta trasparente in cui sono impressi il nome dell’autore, il titolo, l’editore, il volume, previsto nella collana Letteraria, 689 pagine, fu finito di stampare il 7 maggio 1962 dalla Tipografica Varese. Prezzo 3.500 lire. La traduzione dal tedesco, di Alfredo Foelkel e Lia Secci, non differisce molto da quella di Feltrinelli (della sola Secci) distribuita, questa sì, nelle librerie. Il detentore del volume, De Benedetti, conferma il ricordo di Cattadori: il libro fu stampato («in almeno cinquemila copie», aggiunge lo stesso Cattadori) e gettato al macero, ma non ricorda le ragioni di quella decisione. Il guaio è che a fare chiarezza sull’episodio non aiutano né gli archivi della casa editrice né il carteggio con Eric Linder (l’agente italiano di Grass, le cui carte sono conservate alla Fondazione Mondatori). Ci vengono incontro parzialmente alcuni documenti conservati nell’archivio privato di Bompiani, detenuto dalla Fondazione Apice di Milano. Per esempio un appunto, buttato giù dallo stesso Valentino, durante una riunione del 12 giugno 1962, presenti, oltre all’editore e al citato De Benedetti, il direttore commerciale Emanuele Torrani, il caporedattore letterario Sergio Morando e Umberto Eco, caporedattore della filosofia e di alcune grandi opere. Vi si possono leggere due NO accanto ai nomi di De Benedetti e di Torrani, il consiglio di «cederlo a Feltrinelli» accanto al nome di Morando, un «andrebbe avanti "per puntiglio"» accanto al nome di Eco: annotazione sibillina che probabilmente lo stesso Eco riuscirebbe a ricostruire («per puntiglio» rispetto a chi? All’editore, forse?). Conclusione di Bompiani: «Decidiamo di cedere a Feltrinelli». Dunque, con le copie già in magazzino da oltre un mese, l’editore, ancora incerto se distribuire il romanzo o no, per rompere gli indugi consultò i suoi più stretti collaboratori. Un appunto del 24 ottobre seguente, titolato «Feltrinelli», ricorda di avvertire Linder che «non possono pubblicare il libro se non dopo aver chiuso lo scambio». Il tamburo di latta sarebbe andato in libreria di lì a pochi giorni, per la Feltrinelli. Va detto che nei programmi Bompiani per il ‘62, il romanzo di Grass compare sotto la voce Letteratura moderna, ma poi verrà cassato con una riga a penna. L’archivio della casa editrice conserva inoltre un Notiziario Bompiani che il 16 aprile ‘62 annuncia l’imminente uscita del Tamburo e l’anticipazione di un brano sulla rivista Il caffè. Resta da capire perché Valentino decise di eliminare le copie bell’e pronte per le librerie. La risposta si trova in parte nella copia che ho tra le mani, in parte in alcuni episodi precedenti. La copia salvata da De Benedetti è percorsa, nella prima parte del libro, da vistosi segni a penna in coincidenza con passi particolarmente «scandalosi» da un punto di vista religioso, se non addirittura blasfemi. Per esempio, alle pagine 155-56, dove il protagonista Oskar ricorda l’educazione religiosa voluta da sua madre e aggiunge: «e il cattolicesimo mi induce a bestemmie che tradiscono sempre nuovamente il mio sia pure ineffettivo ma tuttavia irrevocabile battesimo cattolico». A poca distanza dice di ringraziare Satana per avergli fornito «un contravveleno (al battesimo) che mi permetteva di incedere sul freddo pavimento della chiesa con pensieri blasfemi». Poco più in là affianca l’immagine del Cristo in croce con quella dell’odiato patrigno, poi con il viso di Jesse Owens dopo una corsa olimpica. In altri brani (segnalati) la religione viene accostata al sesso (il «piccolo innaffiatoio»), si allude a invocazioni e maledizioni a Dio, Marx e Engels, si descrive un amplesso violento, si inciampa in citazioni bibliche parodiate eccetera. È probabile che Valentino Bompiani non avesse letto il libro prima della pubblicazione e che fosse rimasto sconcertato quando se lo ritrovò, rilegato, tra le mani. Era successo, un anno prima, anche per Tutti compromessi, un libro di Uberto Quintavalle in cui si metteva sotto accusa la corruzione politica e morale della borghesia milanese. Bompiani raccontò la vicenda in una lettera del 28 luglio ‘61 a un recensore che probabilmente, in occasione dell’uscita (pure questa da Feltrinelli), denunciò l’episodio del macero: «Alcuni mesi fa io presi saldamente il libro di Quintavalle con due dita in uno dei suoi angoli e gli feci compiere un volo attraverso la stanza degno di Shepard. Poiché allora non era partito neppure Gagarin, fui senz’altro un pioniere». L’editore parla di un «lolitismo di seconda mano» (e precisa che qualche anno prima aveva rinunciato a esercitare l’opzione su Lolita!), di «pseudodenunce» prive di valore stilistico, di un libro che sul piano politico «non mette in crisi nessun sistema, anzi ci si crogiola». Allude poi alla Noia di Moravia, uscito nel ‘60: «bersagliati da mesi per l’uscita della Noia, visitati da comitati per la difesa delle famiglie (...), fatto segno a pressioni di vario tipo valeva la pena di essere difeso a spada tratta», mentre per Quintavalle «si poteva temere che un libro inutilmente esibizionistico esponesse all’accusa di fare della pornografia a scopo commerciale». Senza dimenticare che in passato Bompiani aveva avuto altre «noie»: per esempio nel 1959, quando pubblicò il primo numero della nuova serie della rivista Officina: come ricorda B.D. Schwartz nella biografia di Pasolini, un epigramma dello stesso Pasolini contro Papa Pacelli procurò a Bompiani l’accusa di blasfemia da parte dei circoli aristocratici romani e del Vaticano. E la sua agognata candidatura all’esclusivo Circolo della Caccia fu bocciata. Fabio Mauri, nipote di Bompiani e suo funzionario a Roma, si adoperò per ricucire le relazioni con la gerarchia ecclesiastica. I rapporti con Officina si chiusero lì. Ma l’editore-conte dovette serbare buona memoria di quella terribile scottatura. Anche perché Cattadori ricorda che ancora nel ‘71 Bompiani gli raccomandò di segnalare sulle bozze i passi «scabrosi» di Io e lui. Le segnalazioni arrivarono a Moravia, che reagì: «Chi è quel bacchettone..?».
«Corriere della sera» dell’8 febbraio 2007
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