11 novembre 2009

I giovani e l'Unità d'Italia dimenticata

Il sondaggio: solo il 45% dei diciottenni sa che nel 2011 ricorre un compleanno storico per il Paese. Quando si parla di eventi da organizzare il 29% chiede progetti didattici nelle scuole, il 17% un grande appuntamento
di Paolo Di Stefano
I ragazzi tra i 18 e i 24 anni non «sentono» l'anniversario. Uno su due ritiene il tema non attuale. «Poche celebrazioni»
Non sono bastate le polemiche, gli appelli, i richiami ufficiali. La gran parte degli italiani non sa che nel 2011 ricorre il centocinquantesimo dell'Unità d'Italia. Al riguardo, i giovani tra i 18 e i 24 anni sono leggermente più informati degli altri: potere di Internet? Forse. Però se si chiede loro di esprimere un'opinione sul senso di quell'evento storico, quasi la metà è d'accordo nel ritenerlo poco o per nulla attuale. Ancora meno sono, a differenza degli adulti, i giovani che se ne sentono «coinvolti personalmente». Sono curiosamente i ventenni a mostrare invece maggiore preoccupazione economica e ad auspicare che l'Unità venga celebrata limitando al minimo le spese. Maggior senso di responsabilità rispetto ai cittadini di età matura o minore interesse? Chi può dirlo, forse semplicemente più indifferenza. La fiducia nella scuola è scarsa (lo si sapeva), tanto che solo il 30 per cento degli italiani considera utili i «progetti didattici» sull'argomento elaborati con i professori. E uno su dieci (non è poco), con punte più alte tra i giovani, farebbe volentieri a meno di qualunque tipo di celebrazione. Le iniziative culturali di largo consumo allettano più gli anziani che i giovani (quasi il 25 per cento), ai quali non dispiacerebbe affidarsi a grandi eventi spettacolari magari di richiamo internazionale (17 per cento): concerti, manifestazioni sportive, feste, occasioni di incontro e di scambio. Non si parli di fiction tv (4,3), semmai di monumenti-simbolo (8,7) da lasciare in eredità ai posteri. L'Unità d'Italia, insomma, divide in due il Paese. Non in modo cruento, ma lo divide: le giovani generazioni se ne sentono distanti e poco motivate. Non tutto, però, è perduto, almeno a giudicare dalle interviste (disponibili su YouTube) che il Comitato Italia 150 ha fatto a un gruppo di studenti piemontesi delle scuole superiori, chiamati a dire la loro sul centocinquantesimo, a esprimere consigli e auspici. Ascoltare per credere. In genere il 2011 viene percepito come un'occasione: per migliorare i rapporti Nord-Sud, per offrire all'estero un'immagine che cancelli i soliti cliché italioti, per migliorare l'integrazione degli immigrati, per favorire gli scambi generazionali, per conoscere meglio la Costituzione, per aprirsi all'Europa, eccetera eccetera. In definitiva, dal campione intervistato si coglie facilmente un' insoddisfazione diffusa per lo status quo: sul piano economico, socio politico, culturale. Tutto va bene, tranne insistere sull' esistente. Valentina, terzo anno dell'Istituto tecnico Mossotti di Novara, si dice preoccupata dalle differenze persistenti tra Nord e Sud e guarda all' estero: «L'Italia è un Paese conservatore, a differenza per esempio dell'Inghilterra: per noi è più difficile pensare a uno Stato più moderno». La sua compagna Federica («L'Italia non è ancora uno Stato unico») si rammarica nel vedere il nostro popolo sbeffeggiato all' estero, dove ci considerano «casinisti e rumorosi»: «Più che l'Italia d'oggi, viene apprezzato il nostro passato, arte e storia». Sono loro le prime a cogliere il baratro generazionale: «Gli adulti - dicono - sono più chiusi agli stranieri, mentre noi siamo ormai quotidianamente abituati all'integrazione, a scuola abbiamo a che fare più con immigrati che con italiani». Al Convitto Umberto I di Torino (liceo classico e scientifico) i ragazzi che rispondono sulle aspettative della ricorrenza, parlano di «nuovo inizio», come se il secolo e mezzo trascorso fosse servito a ben poco e sia bene ripartire da zero. C'è chi individua nel 2011 una tappa importante per «ritrovare la nostra unità». Ritrovare. E i più si augurano di non rimanere emarginati dal mondo dei «grandi». Tema ricorrente: chiedono di venire coinvolti il più possibile. Come? Niente congressi, niente seminari o simposi, niente mostre storiche, niente gadget. Musica, teatro, cinema, videoclip, sport e feste, incontri che siano capaci di divertire e magari di accomunare anche al di là delle frontiere: «Qualcosa che ci unisca» è l'augurio più ricorrente, «magari con scambi tra città lontane». E, perché no, aprendo anche i confini internazionali. Si passa dai piccoli eventi locali ai mega eventi nelle grandi città. La parolina «evento» è sulla bocca di (quasi) tutti. Pochi hanno voglia di tornare a riflettere sulla storia e sui personaggi-simbolo, tanto meno in sedi istituzionali: «Niente di noioso, please, e più spazio ai giovani». Altra questione, quella posta a suo tempo da Massimo d'Azeglio: fatta l'Italia, bisogna ancora fare gli italiani? Nonostante l'esibita fierezza di dirsi italiani, le risposte riflettono i dibattiti politici di questi tempi: «Finché si pensa solo alla propria regione, non si può parlare di un Paese davvero unitario». Oppure: «Le divisioni sono ancora tantissime». Oppure: «Tra Nord e Sud c'è una differente concezione di nazione e di società». Oppure: «Siamo più concentrati sugli aspetti economico-politici del nostro Paese, mentre dovremmo puntare sull'orgoglio culturale che ci accomuna». Oppure: «Il senso di appartenenza è più regionale che nazionale». Oppure: «Siamo ancora pieni di pregiudizi reciproci». Dulcis in fundo: «Più che pensare all' Italia dovremmo pensare all'Europa». Distinguere tra i luoghi comuni da talk show e le reali preoccupazioni non è facile, ma intanto i temi sono questi, c'è poco da fare, e virano sul pessimismo. Specie quando il tutto viene proiettato nel futuro, la vera inquietudine degli intervistati: la nebulosa è l' avvenire ben più che l' interrogazione storica e lo sguardo all'indietro. Lo conferma Marina Bertiglia, ex provveditore agli Studi di Torino, che per il Comitato Italia 150 è da un anno responsabile della formazione didattica e come tale si occupa di elaborare i progetti scolastici in vista del 2011: «I ragazzi sono sensibili alla storia solo se la storia si traduce in fatti concreti che abbiano effetti nell'oggi e nel domani. Rifiutano la celebrazione come tale: chiedono di essere coinvolti emotivamente, di avere i loro spazi e di capire meglio come sarà il loro futuro». Fosse facile, verrebbe da replicare, in un Paese per vecchi, come il nostro: «Nell'ottobre 2008 - ricorda Bertiglia - abbiamo promosso un concorso per decorare la recinzione di un cantiere, chiedendo alle scuole di preparare testi o immagini sul tema "ieri oggi domani"». Risultato? «Le immagini puntavano sui personaggi famosi, da Mike Bongiorno agli Agnelli, e sui prodotti del made in Italy». E i testi? «Sulla sfiducia nel presente e sull'incertezza del futuro». Si può anche decidere tranquillamente di ignorare le insoddisfazioni, le lacune e le attese dei nostri giovani, ma in occasione del centocinquantesimo sarebbe un errore più grave del solito.
«Corriere della Sera» del 10 nocembre2009

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