04 novembre 2009

Alda Merini, la poetessa dei Navigli che cantò i poveri, l' amore e l' inferno

1931-2009
di Paolo Di Stefano
Si è spenta a 78 anni. La sua lirica follia l'avvicina a Campana
È scomparsa ieri a Milano la poetessa Alda Merini. Aveva 78 anni e da alcuni giorni era ricoverata nel reparto di oncologia dell' ospedale San Paolo. Scrittrice visionaria e inquieta, la Merini era nata a Milano il 21 marzo 1931, e aveva iniziato a comporre poesie a 16 anni. La prima raccolta che la rese celebre fu «La presenza di Orfeo» del 1953, anno in cui sposò Ettore Carniti. Nel 1965 venne internata nel manicomio Paolo Pini dal quale uscirà solo anni dopo. Con «La pazza della porta accanto» vinse il Premio Latina nel 1995. Negli ultimi anni è stata protagonista anche di apparizioni teatrali e di un documentario presentato alla mostra del Cinema di Venezia. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha dichiarato che «viene meno una ispirata e limpida voce poetica» più volte candidata al Premio Nobel; il presidente della Camera, Gianfranco Fini, l'ha descritta come «capace di narrare la storia dolorosa dell'emarginazione e della solitudine». Il sindaco di Milano, Letizia Moratti, ha messo a disposizione la sede del Comune per la camera ardente. Sarà sepolta al Famedio del Cimitero Monumentale.
Alda Merini ha vissuto una vita elevata alla seconda, alla terza, alla quarta: perché la sua mente moltiplicava, ingigantiva, deformava ciò che agli altri sarebbe sembrato unico e normale, vedeva minacce, incursioni, violenze, pedinamenti ovunque, e questo le rendeva tutto angoscioso; ma per fortuna ogni tanto vedeva anche dolcezze e amori che c'erano e non c'erano, il che le regalava una provvisoria allegria. Quando si parla della Merini, come quando si parla di Dino Campana o di Amelia Rosselli, si pensa subito alla follia: una ferita sempre aperta che ha ingoiato in sé una vita terribile, con lunghi periodi negli ospedali psichiatrici, e una fantasia impetuosa che ha prodotto una mole enorme di testi poetici e in prosa.
Maria Corti, che fu uno dei suoi angeli custodi, la ricorda «ragazzetta» alla fine degli anni 40, nata in una famiglia milanese con un padre assicuratore, una sorella maggiore e un fratello minore, studentessa nelle scuole professionali, respinta in italiano quando tenta l'ammissione al Liceo Manzoni, dedita al pianoforte e quindicenne poetessa in erba. Fu una cugina di Ada Negri a fare avere le sue prime prove poetiche ad Angelo Romanò, che le passò a Giacinto Spagnoletti, il suo scopritore. Nel '47, quando a Milano frequenta la Corti, Luciano Erba, Davide Turoldo e soprattutto Giorgio Manganelli, la sua mente per la prima volta si annebbia. Seguono l'internamento a Villa Turro per un mese, le visite da Fornari, da Musatti e da Clivio, le surreali passeggiate nella Milano postbellica con Manganelli che la esortava a giocarsi il destino nella scrittura. Intanto, il suo nome entra in una importante antologia curata da Spagnoletti per Guanda. Ma ben presto, nel 1950, l'amico più stretto, Giorgio, lascia Milano. Per circa tre anni Alda frequenta Salvatore Quasimodo, a proposito del quale ricorderà in versi un reale o presunto rapporto sentimentale. Nel '53 il matrimonio con Ettore Carniti, proprietario di alcune panetterie milanesi. Il primo volume di versi esce nello stesso anno da Schwarz: La presenza di Orfeo. Pasolini ne rimane impressionato, cita Campana e Rilke. Seguono due nuove raccolte in soli due anni (Paura di Dio e Nozze romane), nasce la prima figlia, Emanuela. Nel '65 il tunnel, l'internamento al Paolo Pini di Milano che durerà fino al '79 con alcuni ritorni in famiglia, da cui nascono altre tre figlie. La vita di Alda si spezza, così come la sua poesia. Ci sarà solo un prima e un dopo, in mezzo il «dolore inutile», il silenzio raccontato a posteriori nelle bellissime prose de L'altra verità. Diario di una diversa (Scheiwiller 1986), «ricognizione, per epifanie, deliri, nenie, canzoni, disvelamenti e apparizioni, di uno spazio - non un luogo - in cui... irrompe il naturale inferno e il naturale luminoso dell'essere umano» (parole di Manganelli). E poi nei lancinanti flash narrativi di Delirio amoroso (il Melangolo 1989), che la avvicineranno (grazie anche a una recensione di Raboni sul Corriere) al grande pubblico. Ma neanche il dopo sarà facile. Le poesie sgorgano anche per ragioni terapeutiche, sono centinaia, migliaia. Molte vengono scritte su fogli sparsi, approntate sul momento, con irruenza e immediatezza, dettate al telefono agli amici.
Toccherà ancora a Maria Corti scegliere nell'abbondanza: ne viene fuori La Terra Santa e altre poesie (1984). Un continuo rincorrersi tra erotico e mistico, tra concretezza sensuale e astrazione visionaria, tra dannazione e oracolare ricerca dell' assoluto, tra felicità originaria e dolore («la vera passione») e fatica di vivere: il contrasto insanabile tra luce e tenebre si rivela, sulla pagina, con un nitore paradossale come se tutto il «disordine psicologico» dell' autrice, il suo tumulto esistenziale trovassero soluzione solo nei versi («mi sento sana di poesia», diceva). Turbolenta eccitazione e tentativo quasi estatico di pacificarsi con se stessi e con il mondo (per «una colpa non commessa») sono due tensioni costanti nella poesia di Alda, e da questa compresenza nasce la vertigine del lettore comune, sbigottito di fronte alla libertà e alla facilità di versi usciti dall' inferno. Dopo la morte di Carniti, nell'81, Alda non vuole stare sola nella sua casa sul Naviglio. Affitta una camera al pittore Charles, conosce un poeta tarantino, Michele Pierri, che sposerà nell'83. Da Taranto, dove si stabilisce, ogni tanto sale con Michele a Milano. «Era una coppia fabulosa - scrive la Corti - che se ti veniva a trovare ti lasciava nell'aria il senso di un'epifania: avvolta lei in una illusione di felicità, lui esile vecchio dall'ilare ironia...». Altre raccolte. Ma la poesia non basta, e Alda non ha pace: ancora un ospedale psichiatrico, poi il ritorno a Milano, dove ritrova i vecchi compagni di strada, cui si aggiungono molti disperati del suo quartiere e nuovi amici generosi come Ambrogio Borsani (che l'ha assistita negli ultimi anni e che ha curato il libro in uscita tra pochi giorni da Einaudi, Il carnevale della croce) e Marina Bignotti, della Scheiwiller. La vita in Porta Ticinese (due locali quasi inabitabili, affastellati di vecchi oggetti, carte e cartacce, portacenere mai svuotati, esalazioni), tra assistenti sociali e visite ambulatoriali, forse non è più l'inferno di un tempo: arriva un amore mitico, con il clochard Titano («quando gli facevo il bagno, la sera, la vasca diventava nera di terra e di smog, ma una volta asciugato il suo corpo era quello di un angelo»), la consacrazione definitiva con Testamento (Crocetti) , che raccoglie una scelta di testi dal '47 all'88 (a cura di Raboni), poi il primo libro da Einaudi (Vuoto d'amore 1991), tantissime plaquettes minori, aforismi, raccontini, ricordi, presentazioni. Arriva persino il Costanzo Show, gli applausi televisivi, arriva la pensione Bacchelli, voluta soprattutto da Paolo Volponi e Luigi Manconi. Alda diventa una scrittrice di culto, le sue serate pubbliche sono affollatissime. In un video pubblicato da Einaudi la celebrano Celentano, Vecchioni, Dalla, Nancy Brilli.
Alda Merini era eccessiva in tutto e la sua follia muoveva sentimenti eccessivi. Lei ci giocava volentieri. Anche con il gusto dello scandalo e della provocazione, come quando si fece fotografare seminuda per un settimanale, i capelli ben curati, le unghie laccate. Nei momenti peggiori si sentiva ancora perseguitata: dal portinaio, persino dalla mafia, dagli editori. Nelle ultime estati si sentiva sola. Continuava a scrivere forsennatamente: «Ho il colon ustionato di versi». Con la sua voce mista di catrame e disperazione, telefonava ai giornali per accusare lo strazio di una città che dimentica i vecchi e i malati. D'inverno, l'inferno era più tollerabile: «Che cosa mi manca? Mi mancherebbe tanto di morire, perché io l' inferno della vita me lo sono goduto tutto». Fino agli ultimi giorni, quando in ospedale, seduta sul letto tra un rantolo e un tiro di sigaretta, cantava i versi di «Porta romana», gli occhi fissi sulle quattro figlie: «La gioventù ti lascia, la mamma muore, la mamma muore, la mamma muore...».
«Corriere della Sera» del 2 novembre 2009

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