Nel libro postumo scritto dopo l’11 settembre, Edward Said critica l’eurocentrismo
di Edward Said
Il brano pubblicato in questa pagina è tratto dal libro «Umanesimo e critica democratica» (traduzione di Monica Fiorini, Il Saggiatore, pagine 175, 16), in cui sono raccolti alcuni interventi di Edward Said, studioso palestinese scomparso nel 2003 e autore del famoso saggio «Orientalismo» (Feltrinelli). Said era stato a lungo professore di Letteratura comparata alla Columbia University di New York.
È un fatto universalmente accettato che, mentre le discipline umanistiche un tempo proponevano lo studio dei testi classici permeati di cultura greca, latina ed ebraica, oggi un pubblico nuovo e più variegato, di provenienza multiculturale, chiede e ottiene che si presti maggiore attenzione a una galleria di personaggi e culture precedentemente negletti o inascoltati che hanno invaso gli spazi incontestati precedentemente occupati dalle culture europee. Persino i privilegi accordati a entità-modello come l’antica Grecia o Israele sono stati oggetto di una revisione nel complesso salutare, che ha notevolmente ridotto le loro pretese di originalità.(...) Per studiosi e insegnanti della mia generazione, educati in modo essenzialmente eurocentrico, il paesaggio e la topografia degli studi umanistici risultano drammaticamente, e, credo, irreversibilmente, alterati. T.S. Eliot, Lukács, Blackmur, Frye, Williams, Leavis, Kenneth Burke, Cleanth Brooks, I.A. Richards e René Wellek vivevano in un universo mentale ed estetico che era linguisticamente, formalmente ed epistemologicamente radicato nel mondo dei classici europei e nordatlantici della Chiesa e dell’impero, con le loro tradizioni, linguaggi e capolavori, insieme a tutto l’apparato ideologico della canonizzazione, della sintesi, della centralità e della consapevolezza. Oggi a tutto questo è subentrato un mondo più variegato e complesso, pieno di contraddizioni e di correnti antinomiche e antitetiche. La visione eurocentrica era già stata mobilitata durante la guerra fredda, e per questo risultava sempre più screditata; inoltre, per la mia generazione di studiosi di formazione umanistica degli anni Cinquanta e Sessanta, essa sembrava restare sempre, in maniera rassicurante, in secondo piano, mentre in primo piano, nei corsi, in ambito accademico e nella discussione pubblica, l’umanesimo veniva raramente sottoposto a uno studio approfondito, ma sopravviveva nella sua magniloquente e indiscussa forma arnoldiana. La fine della guerra fredda ha coinciso con una serie di ulteriori trasformazioni che le guerre culturali degli anni Ottanta e Novanta hanno in qualche modo rispecchiato: le lotte contro la guerra e la segregazione all’interno, l’emergere, ovunque nel mondo, di un numero impressionante di voci di dissenso in campo storico, antropologico, nella ricerca femminista e delle minoranze e in altri settori marginali rispetto ai filoni principali delle discipline umanistiche e alle scienze sociali. Tutto ciò ha contribuito al lento, sismico mutamento della prospettiva umanistica che ora, all’inizio del XXI secolo, è sotto i nostri occhi. Per fare solo un esempio: gli studi afroamericani, in quanto nuovo ambito degli studi umanistici universitari (scandalosamente ostacolati o messi in ombra), hanno avuto la capacità di fare due cose contemporaneamente. In primo luogo, hanno messo in discussione lo stereotipato e forse ipocrita universalismo del classico pensiero umanistico eurocentrico, e, in secondo luogo, hanno ottenuto il riconoscimento della propria rilevanza e urgenza come componente fondamentale dell’umanesimo americano contemporaneo. Questi due cambiamenti a loro volta hanno evidenziato come l’intera idea di umanesimo, che aveva per tanto tempo fatto a meno delle esperienze degli afroamericani, delle donne e di tutti i gruppi svantaggiati e marginalizzati, avesse sempre basato il proprio potere su una concezione dell’identità nazionale che era, quanto meno, altamente selettiva e riduttiva, ovvero limitata a un piccolo gruppo ritenuto rappresentativo dell’intera società, ma che in realtà non teneva conto di ampi segmenti di essa, segmenti la cui inclusione avrebbe permesso di riprodurre più fedelmente l’incessante flusso e a volte la spiacevole violenza delle realtà dell’immigrazione e del multiculturalismo. Il 1992, anno dei festeggiamenti per i cinquecento anni dello sbarco di Colombo nelle Americhe, rappresentò l’occasione per un dibattito, sovente corroborante, sui suoi effetti nonché sulle atroci devastazioni qui simboleggiate dal celebre evento storico. So che alcuni umanisti conservatori hanno accusato questi dibattiti di violare la santità di un sedicente ambito spirituale, ma simili argomentazioni dimostrano solo, una volta di più, che per loro la teologia, non la storia, detta legge negli studi umanistici. Non si deve dimenticare la frase di Walter Benjamin: ogni documento di civiltà è anche un documento di barbarie. E soprattutto gli umanisti dovrebbero poter capire cosa significhi questa affermazione. Quindi gli studi umanistici oggi si trovano a questo punto: viene chiesto loro di prendere in considerazione tutto quello che, da una prospettiva tradizionale, è stato represso o deliberatamente ignorato. Nuovi storici dell’Umanesimo classico del primo Rinascimento (David Wallace per esempio) hanno per lo meno iniziato a esaminare le circostanze per cui figure chiave come quelle di Petrarca e Boccaccio hanno potuto elogiare ciò che è «umano» pur senza mai sentire il bisogno di opporsi alla tratta degli schiavi che aveva luogo nel Mediterraneo. Dopo decenni di celebrazioni dei «padri fondatori» americani e di altre eroiche figure nazionali si comincia a prestare attenzione alla loro equivoca relazione con la schiavitù, con l’eliminazione dei nativi americani e con lo sfruttamento delle donne e delle popolazioni che non possedevano terre. C’è un filo che lega strettamente queste figure un tempo occultate e il commento di Frantz Fanon: «La statua greco-romana(dell’umanesimo si sta sgretolando nelle colonie». Oggi più che mai è legittimo affermare che la nuova generazione di studiosi di discipline umanistiche è più in sintonia di qualsiasi altra prima di lei con le energie e le correnti non europee, decolonizzate, decentrate, di genere del nostro tempo. Ma, ci si potrebbe chiedere, che cosa significa realmente questo? Innanzitutto significa che la critica è il cuore pulsante dell’umanesimo, la critica come forma di libertà democratica e pratica incessante di interrogazione e accumulazione del sapere, aperta alle, piuttosto che negazione delle, realtà storiche che rappresentano il mondo dopo la guerra fredda.
«Corriere della sera» del 7 maggio 2007
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