di Piero Ostellino
Siamo proprio sicuri che la sinistra sia per l’eguaglianza e dalla parte dei più deboli? Proviamo a ragionare in termini empirici. Da noi, una volta arrivata al governo, la sinistra ha aumentato la spesa pubblica e la pressione fiscale. Ségolène Royal ha detto che, se diventerà presidente dei francesi, farà lo stesso. Ma chi le paga le tasse? In Italia, innanzi tutto, la grande massa di lavoratori a reddito fisso, ai quali sono prelevate direttamente alla fonte dal datore di lavoro. Anche volendolo, non potrebbero sottrarvisi. Poi, le pagano piccoli artigiani, commercianti e professionisti. Probabilmente, non in misura corretta rispetto al proprio reddito reale avendo la possibilità di sottrarvisi almeno parzialmente; forse, quanto le pagherebbero se il nostro Paese avesse una pressione fiscale più bassa, analoga a quella di altri Paesi. Infine, le pagano coloro i quali hanno un reddito elevato e hanno l’interesse e l’opportunità di utilizzare le misure che la legge offre loro per evitare di pagare in proporzione ai loro guadagni: la costruzione, con l’aiuto di esperti fiscalisti, di strutture societarie attraverso le quali «eludere» del tutto legalmente una parte delle tasse che altrimenti dovrebbero pagare. Sono la categoria di italiani che, meno di ogni altra, si lamenta del fisco e partecipa a manifestazioni di protesta contro di esso. Forse perché se ne sente meno tartassata? Mi attengo anche qui a una rilevazione strettamente empirica. Molti di costoro votano a sinistra. Poiché non sono ideologizzati come molti lavoratori a reddito fisso o autonomi, e non votano, quindi, per senso di appartenenza di classe, è probabile, dunque, che lo facciano per convenienza. Votano a sinistra perché costa fiscalmente meno di quanto non renda loro sul piano mondano qualificarsi tali. Insomma, perché è chic e conviene. Ritengono «sociale» la spesa pubblica, anche se elevata. Ma non sono mai saliti su un autobus; non mandano i loro figli alla scuola statale; a meno di non esserne stati costretti dalle circostanze, non sono mai finiti in una corsia d’ospedale; si curano in cliniche private, all’estero. In compenso, si scandalizzano, ostentando una moralità fiscale pelosa, se l’idraulico non fa fattura. Non si chiedono se quella manifestazione così palesemente illegale non sia una forma di individuale autodifesa o addirittura il corrispettivo della loro legale, e meno palese, elusione per interposta abilità del fiscalista. Non auspico che «anche i ricchi piangano». Non credo che l’accumulazione di ricchezza individuale sia un gioco a somma zero: tutto ciò che guadagna l’uno lo perde l’altro. Perciò, non mi chiedo neppure se sia giusto che la legge consenta ai più abbienti di attenuare parzialmente i rigori del fisco. Mi pare, anzi, una legittima difesa contro la sua voracità. Vorrei solo che chi è esposto a un fiscalità più occhiuta e implacabile non fosse preso per i fondelli con la balla della redistribuzione della ricchezza e dell’eguaglianza (peraltro controproducenti anche se fossero vere). La spesa pubblica oltre il 50 per cento del Pil è il luogo dove si sperpera in inefficienze e sprechi la ricchezza nazionale; dove prospera il parassitismo. E’ la riserva di caccia delle oligarchie politiche al governo che su di essa mettono le proprie mani. L’elevata pressione fiscale è lo strumento di dominio di tali oligarchie. E’lo Stato etico che pretende di saper disporre dei soldi del cittadino meglio di quanto non saprebbe lui stesso. Spesa pubblica e pressione fiscale elevate non sono la democrazia. Sono la prova del suo fallimento.
«Corriere della sera» del 5 maggio 2007
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