14 luglio 2007

Testamento biologico: questioni sottili. In mezzo può scapparci l'omicidio

Ponderare benissimo i singoli passi legislativi, senza fretta
di Eugenia Roccella
Non è facile arrivare a un'assoluta chiarezza sulle questioni di fine vita, dal testamento biologico all'eutanasia. Le differenze tra una proposta condivisibile e una inaccettabile spesso consistono in sfumature, che all'opinione pubblica possono apparire precisazioni cavillose. Il confine tra il rifiuto dell'accanimento terapeutico e l'abbandono del malato, oppure tra l'accompagnamento a una morte senza sofferenze e l'eutanasia, a volte è sottile, affidato all'intenzionalità del medico e del paziente. È proprio il rapporto tra tecnica e intenzione che i giudici debbono approfondire, nell'indagine sul caso Welby: bisogna appurare se la sedazione somministrata dal dottor Riccio, quella notte di dicembre, è stata volutamente letale o no, cioè se è servita a lenire le sofferenze o a uccidere.
La legge è sufficientemente chiara, e non esiste un problema di vuoto legislativo, ma la campagna mediatica e politica che i radicali hanno costruito intorno alla fine del loro compagno ha creato una situazione di ambiguità e confusione. Da una parte, Pannella e Cappato hanno sottolineato come l'intervento del dottor Riccio si sia limitato al distacco dalla macchina per la ventilazione, e a una sedazione per evitare sofferenze al paziente, nel rispetto della legge. Dall'altra però, tutto il caso Welby è stato condotto in nome della legittimità dell'eutanasia, quindi contro la normativa attuale. Ma se è importante assicurare la libertà di rifiutare la cura, come prevede la Costituzione, bisogna ricordare che è necessario applicare un sistema di garanzie e di cautele che non lascino adito al minimo dubbio, alla minima ombra. Perché l'errore in questo campo è senza rimedio, e si chiama omicidio.
In questa gara a confondere le acque e le opinioni, è entrato anche il professor Ignazio Marino, presidente della Commissione Sanità al Senato. In una recente intervista, Marino racconta di aver «sospeso le terapie a malati per i quali non c'era più nulla da fare», quando operava negli Sta ti Uniti. Secondo il senatore, infatti, lì «prima di tutto viene il consenso informato, espresso direttamente al medico o con un atto notarile». Ma le due affermazioni confliggono tra loro: se per quei malati davvero non c'era più nulla da fare, probabilmente la decisione di non insistere con terapie inutili era una semplice scelta di buon senso contro l'accanimento terapeutico. Il medico, in questo caso, si prende la responsabilità professionale di valutare, insieme al paziente e ai suoi familiari, gli effettivi benefici di una cura, considerando le condizioni di quel particolare malato. Se invece si fa dipendere ogni scelta dal consenso informato, e dunque dalla sola volontà del paziente, che il medico esegue senza bilanciarla con il proprio giudizio e la propria esperienza, si scivola pericolosamente verso un abbandono terapeutico di tipo burocratico. Una successiva lettera di precisazioni del senatore Marino non è servita a dissipare i dubbi: l'eutanasia consisterebbe, secondo il professore, nella pratica di «iniettare un veleno nelle vene del paziente che esplicitamente lo richiede». Mentre sarebbe tutt'altra cosa la semplice sospensione delle terapie nella fase terminale di una malattia.
Purtroppo la distinzione non è così netta. Sospendere le terapie non vuol dire «accettare la fine naturale della vita»; può voler dire provocarla, anche soltanto per il rifiuto di assumersi pienamente le proprie responsabilità di medico; cioè di qualcuno che deve battersi, al fianco del paziente, contro la malattia e la morte, e non limitarsi ad applicare il consenso informato.
«Avvenire» del 12 giugno 2007

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