09 luglio 2007

Se il capitale sociale si chiama mafia

«La criminalità organizzata non è fatta solo di violenza: a garantire la capacità di far presa sul territorio è la sua efficiente rete di relazioni economiche, politiche e sociali». Parla il sociologo Rocco Sciarrone, ospite al Festival Economia
di Paola Springhetti
Siamo abituati a pensare alla mafia come criminalità organizzata, violenta e soffocante. Ma in quell'aggettivo, organizzata, c'è anche una gigantesca ma efficiente rete di relazioni che costituiscono un vero e proprio "capitale sociale". A queste conclusioni è arrivato, attraverso i suoi studi, Rocco Sciarrone, docente di Sociologia generale all'Università di Torino, che sabato 2 giugno al Festival Economia di Trento interverrà parlando di: «Relazioni pericolose: il capitale sociale delle mafie» (Auditorium Santa Chiara, ore 17,30). «Se analizziamo i punti di forza della mafia - spiega Sciarrone -, quelli che ne permettono la permanenza e la riproduzione nel tempo e nello spazio (quindi anche in aree non tradizionalmente mafiose), vediamo che sono sostanzialmente due: l'uso specializzato della violenza e il capitale sociale. I gruppi mafiosi, infatti, hanno la capacità di radicarsi in un territorio, di disporre di notevoli risorse economiche, di controllare le attività di una comunità e influenzare la vita politica e istituzionale. Tutto questo avendo una grande capacità di adattamento al cambiamento sociale».
Cosa si intende per capitale sociale, parlando di mafia?
«Si fa riferimento alla disponibilità di risorse collocate in reticoli di relazioni. I gruppi mafiosi hanno la capacità di ottenere la collaborazione di soggetti o gruppi esterni all'organizzazione, di stringere rapporti di collusione e complicità con settori importanti della società civile e delle istituzioni. La specificità delle mafie italiane, rispetto ad altre organizzazioni criminali, sta nella loro natura intrinsecamente politica. In alcuni casi, addirittura, per perseguire il potere, possono mettere in secondo piano la ricerca di profitti».
Perché la mafia riesce a stabilire queste relazioni con apparente facilità? Gli imprenditori, ad esempio, ci guadagnano o ci perdono?
«Il sistema relazionale della mafia è una forma di capitale sociale fruibile anche da altri soggetti, esterni all'organiz zazione. Tra gli imprenditori bisogna distinguere diverse situazioni. Ci sono quelli che pagano il pizzo e subiscono le imposizioni della mafia: per loro questa è un vincolo, un peso. Ma Cosa Nostra e 'Ndrangheta riescono a stabilire con gli imprenditori rapporti di scambio reciprocamente vantaggiosi. Ci sono imprenditori che fanno della mafia una valutazione amorale, prettamente economica: è una voce di costo tra le altre. In questi casi il pizzo viene "routinizzato"».
In cambio di cosa?
«Di protezione attiva, e non solamente passiva. Il che significa che, per quanto riguarda ad esempio la partecipazione agli appalti, la mafia garantisce una corsia preferenziale e regola la concorrenza (è provato che in Sicilia Cosa Nostra organizzava un sistema di turnazione per quanto riguarda gli appalti pubblici). Significa anche accesso facilitato agli ambienti amministrativi e politici per i grandi appalti pubblici, soprattutto nel campo dell'edilizia e della sanità, ma anche nel campo degli investimenti privati, ad esempio per la costruzione dei grandi centri commerciali. Inoltre l'imprenditore può avere vantaggi anche per quanto riguarda la mano d'opera impiegata, nel senso che tutele sindacali e garanzie previste dalla legge possono essere aggirate con l'appoggio della mafia. Diverso ancora è il caso delle imprese a compartecipazione mafiosa: qui si trova un'altra figura di imprenditore, che arriva a condurre affari in comune con i mafiosi. Questi, infatti, dispongono di una elevata disponibilità di risorse economiche, e hanno il problema di reinvestire questi capitali nell'economia legale. A questo fine può essere molto utile il nome pulito dell'imprenditore, che dal canto suo può usufruire di liquidità che gli permettono di fare investimenti».
Possono essere definiti imprenditori mafiosi?
«In realtà, anche se fanno affari con la mafia non sono propriamente mafiosi. In genere, poi, nei rapporti tra mafia e imprenditori si inserisce un terzo soggetto, che è quello pol itico. In questa triangolazione i mafiosi svolgono una funzione di intermediazione, mettendo in contatto politici e imprenditori».
Detto così, sembra un meccanismo che si auto-perpetua.
«È vero che si tratta di un circolo vizioso, ma è anche vero che molte cose sono cambiate, e non bisogna assolutamente sottovalutare i successi avuti sia a livello di azioni di contrasto da parte delle forze dell'ordine e della magistratura, sia a livello di società civile, dove c'è più sensibilità e attenzione. L'azione di repressione verso l'ala militare è essenziale, ma non sufficiente: la frontiera della lotta è nel contrasto delle relazioni esterne, dei rapporti di complicità e collusione. Non si può fare a meno di osservare che in molte aree dove la mafia è forte il politico o l'imprenditore di successo non è chi combatte la mafia, ma chi si allea con essa».
E con che strumenti si possono combattere le collusioni?
«In genere il consenso alla mafia è spiegato ricorrendo a retaggi culturali: io credo che sia una spiegazione fuorviante, perché la verità va cercata nel suo sistema relazionale. Nel nostro Paese la si combatte senza una strategia organica: si lavora sempre in una logica dell'emergenza, che non può essere sufficiente. Per anni governi di diverso colore politico hanno annunciato una legge quadro sulle misure antimafia, ma non è mai stata varata. Inoltre sarebbe essenziale un'attenzione al problema mafia in tutte le politiche di sviluppo, anche locali».
«Avvenire» del 31 maggio 2007

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