Il poeta si sentiva un essere sofferente,come Giobbe o addirittura Cristo in croce. Esce l’«Intermezzo quasi giapponese»
di Fulvio Panzeri
Si ritorna a parlare di un "gigante" della poesia novecentesca. Ci riferiamo ad Umberto Saba di cui esce ora un preziosissimo inedito, curato egregiamente, nella competenza filologica e nella capacità di raccontare la storia del testo, da Maria Antonietta Terzoli. Si tratta di poesie cosiddette "giapponesi", che richiamano alla forma dell'haiku, per una sorta di rimando ad un ritorno della letteratura giapponese nei primi anni del Novecento, che permette a Saba di cogliere quell'istante fugace e veloce, quell'illuminazione che sta alla base del sentimento dell'haiku in un'ottica tutta strettamente italiana e tutta comunque aderente a quello che è il suo mondo poetico, in grado di unire la magnificenza del "minimo indispensabile", alla grazia di accennare alla profonda valenza del creato.
È da sottolineare che queste poesie sono state scritte, per la maggior parte, negli anni 1916-1917, con qualche prolungamento nel 1918 e la serie di quello che è conosciuto come «Intermezzo quasi giapponese» è pensata per trovar spazio nell'edizione del 1919 del Canzoniere. Solo alcune poesie vi trovano posto, per il resto la serie subisce varianti e si arricchisce di nuovi testi, fino a quest'ultima versione, rimessa in ordine da Saba nell'estate del 1928 e poi inviata ad Enrico Terracini, legato al gruppo di poeti liguri, quali Camillo Sbarbaro e Alessandro Gribaldi, ora riemersa in fotocopia, come ci racconta con la dovuta precisione la curatrice, che ci informa che, di queste poesie scritte durante la guerra, quando Saba era militare, questa «è la forma più ampia e articolata fin qui nota».
C'è, oltre ad una poesia che non risulta per niente minore rispetto alla produzione di Saba che noi conosciamo, anche un altro documento importantissimo che ci aiuta a far luce sulla religiosità del poeta triestino ed è la lettera che invia a Terracini, ad accompagnamento del fascicolo con le poesie manoscritte. La lettera è del 12 settembre 1928 e contiene un frammento di poesia religiosa che rileva l'essenzialità del sacro che la parola poetica può contenere. Saba invita infatti Terracini a «voler bene ai poeti» e poi ne spiega la ragione, partendo da una forma in prosa che poi d'improvviso si muta in poesia. Per Saba il poeta, per essere veramente tale, è «un povero essere, e degno, io credo, d'amore». C'è una consonanza tra il poeta e le figure di Giobbe e di Cristo, perché ha il coraggio di assumere in prima persona, su di sé, un valore di redenzione per tutti. La sua sofferenza, la persuasione dell'inevitabilità del suo patire, lo portano a queste considerazioni, tanto che a Terracini, spiega in questi termini la nascita del frammento che vale l'intero libro, accompagnato dai disegni di De Pisis (scelta più che mai opportuna e raffinata). Lo riportiamo perché indica il centro della straziata serenità che è nutrimento della poesia di Saba e una indicazione anche per la debole poesia di oggi. Ci restituisce l'immagine di un poeta «che dell'opera sua, della sua croce/redentrice non coglie i tardi frutti, /che come Giobbe, come Cristo in croce/ soffre per tutti».
È da sottolineare che queste poesie sono state scritte, per la maggior parte, negli anni 1916-1917, con qualche prolungamento nel 1918 e la serie di quello che è conosciuto come «Intermezzo quasi giapponese» è pensata per trovar spazio nell'edizione del 1919 del Canzoniere. Solo alcune poesie vi trovano posto, per il resto la serie subisce varianti e si arricchisce di nuovi testi, fino a quest'ultima versione, rimessa in ordine da Saba nell'estate del 1928 e poi inviata ad Enrico Terracini, legato al gruppo di poeti liguri, quali Camillo Sbarbaro e Alessandro Gribaldi, ora riemersa in fotocopia, come ci racconta con la dovuta precisione la curatrice, che ci informa che, di queste poesie scritte durante la guerra, quando Saba era militare, questa «è la forma più ampia e articolata fin qui nota».
C'è, oltre ad una poesia che non risulta per niente minore rispetto alla produzione di Saba che noi conosciamo, anche un altro documento importantissimo che ci aiuta a far luce sulla religiosità del poeta triestino ed è la lettera che invia a Terracini, ad accompagnamento del fascicolo con le poesie manoscritte. La lettera è del 12 settembre 1928 e contiene un frammento di poesia religiosa che rileva l'essenzialità del sacro che la parola poetica può contenere. Saba invita infatti Terracini a «voler bene ai poeti» e poi ne spiega la ragione, partendo da una forma in prosa che poi d'improvviso si muta in poesia. Per Saba il poeta, per essere veramente tale, è «un povero essere, e degno, io credo, d'amore». C'è una consonanza tra il poeta e le figure di Giobbe e di Cristo, perché ha il coraggio di assumere in prima persona, su di sé, un valore di redenzione per tutti. La sua sofferenza, la persuasione dell'inevitabilità del suo patire, lo portano a queste considerazioni, tanto che a Terracini, spiega in questi termini la nascita del frammento che vale l'intero libro, accompagnato dai disegni di De Pisis (scelta più che mai opportuna e raffinata). Lo riportiamo perché indica il centro della straziata serenità che è nutrimento della poesia di Saba e una indicazione anche per la debole poesia di oggi. Ci restituisce l'immagine di un poeta «che dell'opera sua, della sua croce/redentrice non coglie i tardi frutti, /che come Giobbe, come Cristo in croce/ soffre per tutti».
Umberto Saba, Intermezzo quasi giapponese, Mup. Pagine 122. Euro 15,00
«Avvenire» del 30 giugno 2007
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