16 luglio 2007

Occidente, troppi silenzi su Stalin

Parla Martin Amis, lo scrittore inglese autore di «Koba, il terribile». E si chiede perché tanta indulgenza verso il dittatore
di Laura Silvia Battaglia
«Le reticenze sui pogrom? La rivoluzione leninista non doveva essere contraddetta»
Lo definiscono uno scrittore satirico che si autocompiace di se stesso. Ma Martin Amis, quarantottenne, tra le voci più importanti della letteratura britannica tanto da essere diventato paladino di un genere, il "dirty realism", figlio d'arte a sua volta (il padre Kingsley fu poeta, critico e sceneggiatore molto prolifico), ospite ieri sera della rassegna culturale «La milanesiana» nel capoluogo lombardo, dove ha parlato di Europa e Islam, non concorda con questa definizione in modo assoluto: «Non mi autocompiaccio da quando non sono più giovane: è possibile che dia ancora questa impressione perché nelle mie opere la ricerca sulla lingua e sullo stile diventa parte integrante del romanzo stesso. Sono un autore satirico nella misura in cui scrivo di cose che non sono gradite a ogni forma di pensiero fondamentalista, se l'effetto è rendere ridicolo il potere. In genere preferisco l'ironia».
Non è stato propriamente ironico, però, in uno dei suoi ultimi libri, «Koba, il terribile. Una risata e 20 milioni di morti», dove ha raccontato il percorso politico di suo padre, membro del partito comunista britannico negli anni della giovinezza, alla scoperta dell'olocausto "rosso" di Stalin. Con «Koba» ha costretto molti europei che si dicono comunisti a farsi l'esame di coscienza piuttosto che quattro risate. E forse non è stato proprio gradito.
«Forse. Ma il libro non è rivolto espressamente a loro. È rivolto a tutti i lettori. A chi vuole saperne di più di quanto accadde in Russia. Forse a chi ritiene in genere il comunismo ancora attraente e sensato ed è bene ripetergli che Stalin era un uomo di una crudeltà maniacale quanto Hitler».
Per esempio, qualche nostalgico della classe operaia inglese?
«Dubito che ce ne siano ancora molti. In tutta Europa la classe cosiddetta operaia è quella dei più forti consumatori: di tecnologia ma non di ideologie».
A proposito di Stalin, suo padre fu uno di quei comunisti che un esame di coscienza in merito l'aveva già fatto, diventando anticomunista negli anni Sessanta. Quanto pesò in questa scelta l'amicizia con lo storico Robert Conquest?
«Il ruolo di Conquest è stato fondamentale: lui è stato davvero l'uomo che ha cambiato la visione dello stalinismo e del comunismo in genere e in particolare a noi, in famiglia. Il terrore, i gulag, le persecuzioni: come è possibile che nessun comunista le volesse vedere? Lui ha avuto il coraggio di denunciarle quando tutti gli davano del matto. E per prima cosa ha influenzato il modo di pensare di mio padre. Dopo la morte di Stalin, i comunisti d'Occidente non avrebbero dovuto avere più veli né reticenze su quei massacri, ma la cosa interessante è che politici, diplomatici, storici, docenti universitari, non fecero una piega. Questo si può spiegare solo col fatto che il comunismo viene vissuto come una religione. E che la Rivoluzione d'Ottobre, tra le sue leggi, conteneva quella di non potere essere contraddetta».
Ma adesso sappiamo quasi tutto sui pogrom, il muro di Berlino è caduto; come è possibile che qualcuno ancora oggi creda in Lenin?
«Lenin e Hitler sono certo dei personaggi storici ma a livello simbolico contengono un quoziente di rivendicazione di potenza che continua ad attrarre. Qualche nostalgico è rimasto, ma alla fine credo che si possa agevolmente sostituire uno dei due con Bin Laden».
Perché?
«Perché l'islam fondamentalista contiene una pari carica di rivalsa».
Dunque il desiderio di dare vita a società più giuste si può trasformare ancora una volta in un disastro? Insomma, le utopie, di matrice laica o religiosa, generano mostri?
«Ogni radicalità di pensiero è pericolosa. Tuttavia la società occidentale si configura sempre più per la sua "filosofia del negativo". In cosa crediamo? In niente. Dove andiamo? Nel nulla. Intendo che, non accettando nemmeno l'idea della morte, anzi, piuttosto immaginando di potere essere immortali, ci condanniamo a una forma di autodistruzione. Il rischio è quello di incoraggiare i mostri dopo averli già p artoriti».
È il rischio che corre anche l'islam fondamentalista, adesso?
«Il rischio è già realtà. Basti guardare alla situazione demografica. Noi siamo sempre meno, non facciamo figli, pensiamo a produrre piuttosto che a riprodurci. I musulmani fanno figli, migrano in Occidente, arricchiscono la loro cultura e credono nel paradiso, che per noi è un'illusione. Così noi non abbiamo più illusioni, dimenticando che le illusioni contengono una spinta di azione rivoluzionaria nel mondo».
Ha paura per le minacce che le sono state indirizzate a proposito delle sue riflessioni su Islam e sessualità, qualche anno fa sul "Times"?
«Le associazioni islamiche si sono sentite offese da alcune affermazioni come questa: i militanti islamici sono affetti da insicurezza maschile, e la si può desumere dai loro atti. Non è sempre così, certo, ma credo sia indubbio che nell'islam radicale ci sia un'enorme componente di sessualità. È interessante notare che adesso molte donne militanti in Hamas assumano questi stessi comportamenti, e questo è un tema da approfondire: credo faccia parte di una forma di emancipazione interna, per così dire. Per quanto mi riguarda, è vero, ho ricevuto alcune minacce. Ma poi me ne sono fatto una ragione: in un mondo dove ogni giorno scoppia una bomba da qualche parte, nessuno è al sicuro».
«Avvenire» del 29 giugno 2007

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