09 luglio 2007

Riconoscere le coppie di fatto altera l'identità del matrimonio

Diritti individuali da promuovere, sbagliati i Dico
di Francesco D'Agostino
«In che cosa il riconoscimento di alcuni diritti e doveri reciproci tra conviventi di fatto lede l'idea di famiglia? La stessa domanda si poneva ai tempi del divorzio: in che cosa la possibilità di divorziare lede coloro che divorziare non vogliono?». A queste domande, (apparentemente) così semplici, quasi elementari, che Corrado Augias pone retoricamente ai propri lettori, su Repubblica del 7 giugno, sembra che non sia possibile dare risposte adeguate, se non assumendo atteggiamenti rigidamente e ottusamente illiberali. È invece vero proprio il contrario, come è stato chiarito innumerevoli volte e come cercheremo, ancora una volta, di chiarire.
Dire di no ai Dico non significa affatto dire di no ai diritti delle persone, che vanno sempre e comunque ribaditi, rispettati e promossi. Il punto è che quando si parla dei Dico il discorso non ha affatto per oggetto i diritti delle persone: ha piuttosto per oggetto la pretesa di introdurre nell'ordinamento giuridico un istituto assolutamente nuovo, pensato e voluto dai suoi fautori come obiettivamente concorrenziale rispetto al matrimonio (come è dimostrato dal fatto che chi è sposato non può contrarre un Dico - e viceversa - e che chi non è legittimato a contrarre matrimonio non può essere legittimato a stipulare un Dico). Ne segue che, ove esiste il riconoscimento legale delle convivenze, le giovani coppie, nel momento di formalizzare la loro unione, si pongano la domanda di quale vincolo prescegliere e che siano obiettivamente portate a preferire quel vincolo che a parità di diritti impone minori doveri. È quindi inevitabile che l'introduzione dei Dico alteri irrimediabilmente l'identità stessa del matrimonio. L'esempio estremo di tale alterazione ce lo danno quelle recentissime legislazioni che, avendo aperto i Dico o il matrimonio stesso agli omosessuali, hanno introdotto - fatto nuovo nella storia dell'umanità e di cui si potranno valutare gli effetti solo nel lungo periodo - un riconoscimento pubblico di tali unio ni. Come chiunque può vedere, con queste considerazioni non si vuole (ancora) valutare se sia opportuno o meno introdurre i Dico nel diritto italiano: quello che è certo è che questa innovazione normativa muta così profondamente il concetto giuridico di famiglia che non è inappropriato parlare di una vera e propria lesione a suo carico.
Se queste considerazioni ancora non fossero ritenute probanti, torniamo a riflettere sulla legislazione divorzista, alla quale Augias stesso fa riferimento. «In che cosa la possibilità di divorziare lede coloro che divorziare non vogliono?». La risposta è semplice: l'introduzione del divorzio ha tolto alle coppie intenzionate a vincolarsi indissolubilmente la possibilità legale di farlo. Da quando il matrimonio è per la legge civile dissolubile, se ne è quindi alterata l'identità. Augias a questa osservazione potrebbe ribattere che nessuna coppia sposata è obbligata a divorziare. È ovvio, ma non è questo il punto. La posta in gioco infatti non è la buona volontà delle coppie a vivere unite per tutta la vita, ma il fatto che un ordinamento giuridico divorzista, che non intende dare un riconoscimento pubblico a una volontà coniugale indissolubile, altera obiettivamente il concetto, il significato e la stessa prassi sociale del matrimonio.
Ancora una volta, bisogna riconoscere che il discorso sui Dico non è, in prima battuta, di tipo religioso o sacramentale, ma antropologico e che nessuna discussione in merito potrà essere bene impostata, fino a quanto non si tornerà a riflettere correttamente sull'antropologia del matrimonio. Ma come pretendere tutto questo da una cultura relativistica e sostanzialmente irriflessiva come quella oggi dominante?
«Avvenire» del 10 giugn0 2007

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