Quell’enigma del tempo ripreso da Foscolo, Shelley, Eliot
di Roberto Mussapi
La condizione in cui nasce l’Apocalisse pare tracciare una sorta di modello della creazione poetica: l’autore è confinato in un’isola, e da questa terra marginale, circondata dal mare, lontana dal centro del mondo, è rapito in spirito, posseduto da visioni. Visioni ispirate da un’urgenza incontenibile: comprendere la realtà dell’alfa, e dell’omega, del principio e della fine. Da un punto di vista poetico l’Apocalisse è in questo senso un modello, un archetipo della genesi dell’opera. Il principio: quante Arcadie, quanti Eden perduti, nella poesia, ma anche quanti modelli del passato idealizzati fino a renderli atemporali, come fu il mondo greco in tante età della poesia? Accanto a intuizioni che entravano nel cuore della specie, come il viaggio di Foscolo nei Sepolcri, verso la nascita della stirpe umana. Altrettanto presente, più vistosa nel Novecento, l’ossessione della fine, del destino ultimo, della eventuale meta di un moto che da Shakespeare e John Donne in poi appare cieco o comunque oscuro nel suo senso profondo. Come nella poesia dei grandi autori cosmologici, Shelley, Leopardi, Whitman, la visione è preceduta da una mappa siderale, qui sette stelle, a cui corrispondono sette lampade, correlativo umano degli astri lucenti: la lampada di Ero e Leandro segna un momento aurorale della grande poesia occidentale d’amore e di navigazione, la lampada ardente è il fulcro poetico di grandi poeti sufi, immersi in una sorta di incantata e illuminata mistica islamica. In mezzo, qui e ora, il tempo presente relativo per l’autore dell’Apocalisse, in un certo senso assoluto per il poeta: il quale parla, sempre, di realtà astoriche e atemporali in termini storici e temporali, attraverso la lingua che è astratta e condivisa nello stesso tempo. Il repertorio visionario dell’Apocalisse è sterminato e animato da una congenita inesauribilità: sembrano non aver fine, nel presente della visione, i terremoti e i boati, i fragori selvaggi, i cavalli verdi irrompenti come i draghi dalle sette teste, l’angelo che fulmina il fulmine, il clangore fastoso e incandescente di una cavalcata inarrestabile, interrotta però da improvvisi, infinitamente quieti intertempi di silenzio. Che pare la premonizione del tempo ultimo, che non sarà frutto di una distruzione ma di una trasformazione, una trasfigurazione. Non rovina finale, ma metamorfosi. La poesia mentre descrive il mondo nel suo apparire, ne coglie anche l’enigma, il volto invisibile, o nascosto, che ha in sé il germe di una trasfigurazione. E’incongrua, rispetto al testo di Giovanni la letteratura apocalittica, vale a dire catastrofista, come sarebbe superficiale leggere, nella vertigine di simboli, un repertorio di base per poetiche surrealiste. No, la visione qui, come in molta poesia, è oscura, ma mai gratuita, alogica, ma non insensata. Come avviene in certe poesie cosmologiche di Dylan Thomas. Ma soprattutto, è quintessenziale la condizione di fondo: su un’isola, irrompe la visione, orientata da stelle e lampade. Il presente, il tempo in cui il poeta sta scrivendo e a cui ora deve rispondere, si dilata. Qui agisce il poeta: «Il tempo presente e il tempo passato/ Son forse presenti entrambi nel tempo futuro,/ E il tempo futuro è contenuto nel tempo passato». Sono versi leggendari dai Quattro Quartetti di T.S. Eliot, il massimo poeta del Novecento. E definiscono l’impresa poetica, in quella condensazione drammatica del tempo che l’Apocalisse mostra, sotto la sua travolgente esuberanza, nella sua purezza scheletrica.
« Corriere della Sera » del 29 aprile 2007
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