Il poeta caraibico premio Nobel si scaglia contro coloro che parlano sempre di crisi. «I Paesi che più di tutti amano i versi? La Russia, il Brasile e la Colombia»
di Paola Springhetti
Ti accoglie con una battuta, ride, e intanto osserva come reagisci. Se pensa che non stai al gioco puntualizza: scherzavo. Derek Walcott è un poeta di 77 anni con uno sguardo da ragazzino e ancora molta voglia di divertirsi. È a Roma perché ieri ha ricevuto il Premio Mario Luzi per Odissea. Una versione teatrale (traduzione di Matteo Campagnoli). In questo testo Walcott - premio Nobel per la Letteratura nel '92, considerato uno dei più grandi poeti di lingua inglese viventi - riprende il tema delle peregrinazioni, in cerca di un'Itaca, di un Ulisse incarnato dal vecchio cantore cieco Billy Blue. L'Odissea di Walcott è stata presentata in prima mondiale in Sicilia nel 2005, nell'ambito dell'Ortigia Festival, con il lavoro di attori caraibici, italiani e spagnoli. Tre lingue, come ben si addice ad un poeta che è veramente internazionale, non soltanto perché è nato nelle Antille e scrive in inglese, insegna negli Stati Uniti ma torna appena può nei suoi Carabi, e gira continuamente il mondo per tenere lezioni e conferenze, partecipare a eventi e presentare le traduzioni dei suoi libri. Ma anche perché è uno che ha radici identitarie profonde e nello stesso tempo uno sguardo largo.
Anche per questo ha un moto di insofferenza quando si fa notare - a lui che viene premiato per un testo teatrale in versi - che nel nostro paese non è che la poesia sia molto popolare, e anche il teatro ha le proprie difficoltà. «È sempre stato così», fa notare, «i lettori di poesia non sono mai stati tantissimi, anche se ci sono paesi dove invece si legge molto, come per esempio la Colombia e la Russia, ai due estremi del mondo. Quando qualcuno dice che la poesia è morta, dice che la sua cultura, il suo Paese sono morti. Io scrivo poesie, io non sono morto».
D'altra parte, secondo Walcott, non è così facile misurare la «vitalità poetica» di un paese: «può darsi che non ci siano in questo momento grandi poeti in Italia, o che non ci siano in Inghilterra. Molto spesso la morte della poesia è dichiarata proprio nei paesi che hanno dominato a lungo con la loro cultura, e c'è in questo una certa arroganza. La poesia non è morta in Brasile, non è morta in paesi che hanno forse meno tradizione. E poi, la poesia non è misurabile sulla concezione del tempo che si applica agli uomini: non puoi misurarla sui 25 anni, e neanche sui cento. L'Italia ha un grande numero di poeti eccellenti: Montale, Bertolucci, Ungaretti e tanti altri. Ma la poesia non è un malato a cui ogni mattina tasti il polso».
Ma insomma l'Italia, l'Inghilterra, l'Europa in generale sono davvero paesi vecchi? Troppa tradizione, troppa prosopopea fanno male alla creatività? «Io insegno negli Stati Uniti», risponde il poeta, «ma mi è capitato anche di insegnare poesia angloamericana in Italia. Ho trovato giovani di talento, pieni di energia e di freschezza. Insomma, arriva sempre il momento in cui qualcuno dice che il teatro è morto, la poesia è morta, la musica o la pittura sono morte, ma allora dovrebbe essere morto tutto».
Invece nulla è morto, ma forse molto ha bisogno di rivitalizzarsi. E allora lui, con due antenati bianchi e due antenate nere, figlio dunque di colonizzati e colonizzatori, vero Ulisse del nostro tempo, forse è questo che ci sta dicendo: che bisogna prendere la vita là dove c'è e si esprime, si tratti del Brasile, della Colombia o della Russia. Lui che ha l'oceano un po' in tutta la sua opera, conosce poco il Mediterraneo, il mare che oggi, accanto ai resti delle antiche civiltà di cui è stato culla, custodisce i cadaveri dei migranti in cerca di una vita nuova. Ma conosce bene la paura di mescolarsi che ancora esiste negli Stati Uniti, «che respingono haitiani e cubani che arrivano, anche loro, dal mare e andrebbero accolti in quanto rifugiati politici. E sono soprattutto i neri ad essere rifiutati: quelli che hanno la pelle bianca hanno molte più possibilità di farcela. Gli Americani hanno ancora paura di mescolarsi».
Non è un inno alla rinuncia alla propria identi tà, tant'è vero che il problema non è la lingua, anzi, Walcott ne è assolutamente convinto: «anche se ci sono bravi poeti bilingue, credo che ognuno debba scrivere nella propria lingua, anche perché ci sono buoni traduttori, a volte poeti loro stessi, come Matteo Campagnoli». Lui dei traduttori si fida, e intanto continua a scrivere. Sta lavorando a un nuovo libro di poesie, anche se specifica che «ci vorrà ancora almeno un anno prima che sia pronto».
Anche per questo ha un moto di insofferenza quando si fa notare - a lui che viene premiato per un testo teatrale in versi - che nel nostro paese non è che la poesia sia molto popolare, e anche il teatro ha le proprie difficoltà. «È sempre stato così», fa notare, «i lettori di poesia non sono mai stati tantissimi, anche se ci sono paesi dove invece si legge molto, come per esempio la Colombia e la Russia, ai due estremi del mondo. Quando qualcuno dice che la poesia è morta, dice che la sua cultura, il suo Paese sono morti. Io scrivo poesie, io non sono morto».
D'altra parte, secondo Walcott, non è così facile misurare la «vitalità poetica» di un paese: «può darsi che non ci siano in questo momento grandi poeti in Italia, o che non ci siano in Inghilterra. Molto spesso la morte della poesia è dichiarata proprio nei paesi che hanno dominato a lungo con la loro cultura, e c'è in questo una certa arroganza. La poesia non è morta in Brasile, non è morta in paesi che hanno forse meno tradizione. E poi, la poesia non è misurabile sulla concezione del tempo che si applica agli uomini: non puoi misurarla sui 25 anni, e neanche sui cento. L'Italia ha un grande numero di poeti eccellenti: Montale, Bertolucci, Ungaretti e tanti altri. Ma la poesia non è un malato a cui ogni mattina tasti il polso».
Ma insomma l'Italia, l'Inghilterra, l'Europa in generale sono davvero paesi vecchi? Troppa tradizione, troppa prosopopea fanno male alla creatività? «Io insegno negli Stati Uniti», risponde il poeta, «ma mi è capitato anche di insegnare poesia angloamericana in Italia. Ho trovato giovani di talento, pieni di energia e di freschezza. Insomma, arriva sempre il momento in cui qualcuno dice che il teatro è morto, la poesia è morta, la musica o la pittura sono morte, ma allora dovrebbe essere morto tutto».
Invece nulla è morto, ma forse molto ha bisogno di rivitalizzarsi. E allora lui, con due antenati bianchi e due antenate nere, figlio dunque di colonizzati e colonizzatori, vero Ulisse del nostro tempo, forse è questo che ci sta dicendo: che bisogna prendere la vita là dove c'è e si esprime, si tratti del Brasile, della Colombia o della Russia. Lui che ha l'oceano un po' in tutta la sua opera, conosce poco il Mediterraneo, il mare che oggi, accanto ai resti delle antiche civiltà di cui è stato culla, custodisce i cadaveri dei migranti in cerca di una vita nuova. Ma conosce bene la paura di mescolarsi che ancora esiste negli Stati Uniti, «che respingono haitiani e cubani che arrivano, anche loro, dal mare e andrebbero accolti in quanto rifugiati politici. E sono soprattutto i neri ad essere rifiutati: quelli che hanno la pelle bianca hanno molte più possibilità di farcela. Gli Americani hanno ancora paura di mescolarsi».
Non è un inno alla rinuncia alla propria identi tà, tant'è vero che il problema non è la lingua, anzi, Walcott ne è assolutamente convinto: «anche se ci sono bravi poeti bilingue, credo che ognuno debba scrivere nella propria lingua, anche perché ci sono buoni traduttori, a volte poeti loro stessi, come Matteo Campagnoli». Lui dei traduttori si fida, e intanto continua a scrivere. Sta lavorando a un nuovo libro di poesie, anche se specifica che «ci vorrà ancora almeno un anno prima che sia pronto».
Derek Walcott, Odissea. Una versione teatrale, Crocetti. Pagine 388. Euro 24
«Avvenire» del 10 giugno 2007
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