14 luglio 2007

Quel «poderoso saggio» confonde fanatismo e religione

A proposito del pamphlet di Hitchens
di Francesco D'Agostino
Cominciamo col tranquillizzare chi abbia letto l'interminabile recensione, intitolata "Contro la religione", che, sul Corriere della Sera del 12 giugno, Pierluigi Battista ha dedicato a Christopher Hitchens e al suo ultimo libro "Dio non è grande". Non si tratta affatto di un saggio "poderoso", né l'autore sembra essere "singolarmente intelligente"; il libro non è né "spiritoso", né "straordinariamente insidioso per chi è impegnato nella guerra culturale contro il secolarismo", né infine appare scritto "con la maestria di un campione della polemica culturale". Vale la pena comprarlo e leggerlo? No. Ma poiché Battista insiste nel dire che le tesi di Hitchens "esigono una risposta, non una scomunica" e soprattutto "non il silenzio imbarazzato, come accade troppo spesso", proverò a motivare rapidamente le ragioni per le quali - senza sentire alcun imbarazzo - ritengo che "Dio non è grande" sia tutto sommato un libro inutile.
Quando si può raccomandare la lettura di un libro di saggistica? Essenzialmente quando l'autore sostiene idee nuove e riesce ad argomentarle adeguatamente. In via subordinata, quando, anche se non sostiene idee nuove, le presenta con uno stile innovativo e accattivante. Hitchens non rientra né nell'una né nell'altra categoria. Le sue idee non hanno alcuna originalità: rientrano in un filone antichissimo di critica alla religione, già ampiamente sfruttato in epoca classica, in particolare dagli epicurei, e che attraversa, come un filo rosso, l'intera storia dell'Occidente: la religione è violenta. Tutti gli studenti della mia generazione hanno letto Lucrezio (quando nei licei classici si studiava ancora il latino!) e imparato a memoria la sua famosissima accusa alla religione: tantum religio potuit suadere malorum! Se Lucrezio appare troppo datato, si prenda James Hillmann e il suo "Un terribile amore per la guerra", apparso, nell'edizione originale, solo tre anni fa: vi si possono trovare tutte, proprie tutte le critiche di Hitchens alla religion e, esposte però con ben altra vigoria teoretica. Sta di fatto che al pensiero forte di Hillmann, così come al semplicistico argomentare di Hitchens va mossa la medesima obiezione: sia l'uno che l'altro confondono indebitamente fanatismo e religione. Se è indubbio che il fanatismo trova il più delle volte (ma non sempre) le sue radici nella religione, è altrettanto indubbio che questa è ben diversa da quello: il fanatico si rapporta all'altro come ad un nemico, per asservirlo, l'uomo religioso si rapporta all'altro come a un fratello, per servirlo. Non solo è ingeneroso, ma è scorretto assimilare grossolanamente l'una e l'altra figura: il fanatico terrorista non appartiene al mondo del Buon Samaritano, esattamente come (e mi scuso per la pochezza dell'esempio) i veri amanti dello sport non vanno assimilati ai teppisti che incendiano gli stadi.
Resta ancora in piedi l'altra possibile buona ragione per leggere Hitchens: la brillantezza del suo stile. Personalmente, non riesco a percepirla. Hitchens è fondamentalmente un tardo epigono di Voltaire, anche per il quale le Scritture erano piene di "approssimazioni, incongruenze, assurdità", infarcite di "terrificanti proibizioni" e che vedeva in Abramo uno che ascoltava delle "voci" e che, dopo essersi fatto accompagnare dal figlio in una "folle e fosca camminata" era addirittura pronto ad assassinarlo. Qualcuno potrà anche divertirsi a leggere come Hitchens stigmatizza il Dio biblico che "odia il prosciutto"; ma è doveroso ricordare che battute del genere Voltaire ne ha scritte a decine e decine, e in genere ben più brillanti di quelle di Hitchens. Una volta messa da parte tutta questa non irresistibile ironia, cosa resta se non l'incredibile sordità di Hitchens (e, ben prima di lui, di Voltaire) nei confronti della Bibbia e del suo linguaggio? E’ben difficile far percepire a chi sia completamente cieco lo splendore delle arti figurative; ma anche se non tutti sono in grado di leggere la storia di Abramo con l'appassio nata intelligenza di un Kierkegaard, tutti dovrebbero avere almeno il garbo di un non credente come Max Weber, che non perse mai il rispetto nei confronti della religione, anche se personalmente si riconosceva completamente stonato (unmusikalisch) nei suoi confronti.
Non sono, come crede Battista, i "difensori della fede" a dover "fare attenzione a questo pamphlet"; sono piuttosto i "laici". Anche a costoro bisogna consigliare di prendere questo libro con le molle: chi si compiace delle argomentazioni di un Hitchens e si illude di poter liquidare la religione con queste antiquate invettive è già fuoriuscito, senza accorgersene, dalla modernità. Voltaire, per quanto gradevole sia leggerlo, non rappresenta né il presente né il futuro; è solo - come la parrucca che indossò fino alla fine della sua vita - il simbolo di un passato definitivamente sepolto.
Avvenire» del 15 giugno 2007

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