14 luglio 2007

«Prima la scuola pubblica». Ma poi la casta manda i figli negli istituti privati

Cresce la distanza tra valori professati e comportamenti realizzati
di Pierluigi Battista
La distanza tra i valori professati e i comportamenti effettivamente realizzati può aprire un nuovo capitolo di quel processo alla «casta» che oggi, come è dimostrato anche dallo straordinario successo del libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, trova un’opinione pubblica particolarmente ricettiva. Suscitano per esempio un certo scalpore quei politici del centrodestra che magnificano le virtù della famiglia tradizionale sfilando leggiadramente con il popolo del Family Day ma hanno alle spalle condizioni di irregolarità familiare, alimentando così l’impressione di predicare la necessità di scelte impegnative e «indissolubili» che loro per primi non sono capaci di onorare. Su Liberazione, invece, Ritanna Armeni lamenta il drammatico divario tra ciò che la sinistra dice di voler fare e ciò che realmente finisce per fare (anzi, per non fare) come causa di un disamore che dalla disillusione può portare direttamente al ripudio o alla denuncia di un intollerabile tradimento. Attenzione, però: perché gli esami di coerenza, una volta cominciati, prendono una traiettoria indesiderata, costringono i giudici a una prova di trasparenza, fallita la quale ogni verdetto di condanna apparirà illegittimo e privo di credibilità. Se per la casta politica (ma anche per quella economica, giornalistica, accademica) iniziano a suonare le trombe e le trombette del giudizio, occorrerà pure seminare di interrogativi le sedute di autocoscienza collettiva preparatorie al Grande Processo. Quanti strenui difensori del monopolio statale dell’istruzione, loquaci apostoli della scuola pubblica e uguale per tutti, dovrebbero spiegare la decisione di spedire i propri figli nelle migliori scuole private, o all’estero, o negli istituti di eccellenza abbordabili solo al prezzo di rette salatissime? Quanti predicatori del multiculturalismo e dell’accoglienza ecumenica, quanti severi censori di ogni sia pur minimo segnale di xenofobia sarebbero disposti a disertare la relativa sicurezza dei loro quartieri esclusivi per trasferirsi stoicamente in qualche periferia degradata dove va in scena la guerra tra poveri e l’arroganza malavitosa della nuova delinquenza? Ed è davvero così difficile accorgersi che nelle case agiate dove risuonano indignate rampogne contro le diseguaglianze della precarietà si materializzano invece nelle figure di colf e badanti extracomunitarie le condizioni di una nuova servitù sotto-remunerata e ricattabile? Quanti seguaci del verbo liberista dovrebbero spiegare quel poco o tanto (o tantissimo) di statalismo assistenzialista di cui sono beneficiari. Quanti sbandieratori di vessilli pacifisti sarebbero richiesti di motivare la loro indulgenza tanto tiepida per le manifestazioni di violenza (come al G8 di Genova) e l’accostamento con i ritratti del «Che», combattente armato che disprezzava il pacifismo. Quanti anti-abortisti dovrebbero farci capire perché la difesa intransigente della sacralità della vita non arriva mai a infiammarsi di santo furore quando i bambini vengono inceneriti sotto i bombardamenti aerei. Quanti anti-divorzisti dovrebbero spiegare perché non provano imbarazzo per le sentenze di un’istituzione come la Sacra Rota che è un monumento all’ipocrisia e mette in luce una dissociazione di trattamenti plateale e totalmente ingiustificata. Quanti campioni della meritocrazia dovrebbero dar conto di raccomandazioni concesse o ricevute. Se insomma l’esame di autocoscienza si avviasse sul serio, le caste avrebbero molto da lavorare. Ma la glasnost buona, si sa, è sempre quella degli altri.
«Corriere della sera» del 28 maggio 2007

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