Un saggio di Mario Isnenghi ribalta la vulgata negativa sull’eroe
di Dino Messina
Leader, simbolo di identità, politico realista, mito popolare
In tempi di localismo e clericalismo, che da un paio di decenni hanno generato un’onda antirisorgimentale, è venuto il momento di parlar bene di Garibaldi. È quanto sostiene Mario Isnenghi a introduzione di Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato (Donzelli, pagine 215, 12,50), un saggio che si presenta in una veste agile, ma in realtà racchiude venticinque anni di ricerche. Non di una normale biografia si tratta. Quella, Isnenghi, l’aveva scritta nel 1982, centenario della morte dell’eroe, su sollecitazione di Luigi Firpo, ma aveva lasciato nel cassetto, incompiute, cinquecento cartelle. Ora, in occasione del bicentenario della nascita, che cade il 4 luglio 2007, il lavoro riaffiora sotto forma di riflessione. Non soltanto sul personaggio ma soprattutto sul mito. Perché, dunque, parlar bene di Giuseppe Garibaldi? Abbiamo individuato almeno quattro motivi. Risorgimento popolare. Secondo Isnenghi l’epopea di Garibaldi ma anche l’onda lunga che ha lasciato nella storia d’Italia smentisce la tesi, divenuta vulgata, secondo cui il Risorgimento fu un movimento minoritario, compiuto da una élite ristretta mentre le classi popolari stavano a guardare. Tra i garibaldini c’erano migliaia di volontari (i mille partiti da Quarto quando arrivarono a Napoli erano cinquantamila) che ebbero tantissimi contatti con la popolazione italiana conquistata dagli ideali unitari. Per l’autore la «fintamente democratica lamentazione a posteriori secondo cui mentre pochi facevano la nazione gli altri stavano a guardare» induce a distrarre lo sguardo dalle tante situazioni in cui le élite in azione, non necessariamente le stesse dei grandi borghesi e possidenti risultate infine vincenti, riuscivano a coinvolgere le masse. Simboli e identità. La tesi che ribalta il luogo comune del Risorgimento minoritario è legata alla costruzione di simboli e miti in cui il popolo italiano finalmente unito si riconosceva. Chi ha contribuito più di ogni altro alla scrittura di questo discorso pubblico, non tanto con i brutti romanzi ideologici, ma con le «gesta» e le decine di proclami al popolo, è stato Garibaldi. «Tutto il Risorgimento - scrive Isnenghi - si configura come un collettivo "viaggio in Italia", di riconoscimento, agnizione e collaudo rispetto a una mappa mentale precostituita nell’immaginario». I luoghi nei quali combatte, si nasconde, parla, dorme, mangia il generale diventano quasi subito simbolo dell’identità italiana. Questo riconoscimento è molto più significativo al Sud, dove ci sono meno musei del Risorgimento, che invece abbondano nelle città del Nord. Il «qui sostò Garibaldi» diventa «un elemento di identità civica». E le lapidi un genere letterario in cui c’è spesso l’insidia di una bugia. «In questa casa - è scritto su una lapide di Marsala - per ore sessanta fu Garibaldi. Qui nel 19 luglio 1862 la prima volta tuonò o Roma o morte». Una dozzina di giorni prima Garibaldi avrebbe detto «per la prima volta» le stesse parole a Carini. La politica delle lapidi continuò a lungo. Per quella di Mentana fu ingaggiato nel 1877 nientemeno che Giosué Carducci e per l’Aspromonte nel 1907 il poeta socialista Mario Rapisardi. A volte la Realpolitik imponeva di glissare sui passaggi scomodi. Così, sempre nel primo centenario della nascita, con la consulenza del senatore Pasquale Villari si glissò sul fatto che Garibaldi a La Spezia era stato prigioniero dopo i fatti dell’Aspromonte. Ideali e realismo. La definizione di «rivoluzionario disciplinato» si riferisce più alla tendenza di Garibaldi a venire a patti con la realtà che non alla disciplina interiore attribuita ai rivoluzionari di professione. Isnenghi riconosce che Garibaldi il più delle volte agì sul filo dell’illegalità, anzi in alcune occasioni, come Aspromonte e Mentana, andò fuori della legge. Tuttavia proprio in quei momenti, sottolinea, seppe dar prova di realismo, non forzando la mano, indietreggiando, sciogliendo il suo esercito, assumendosi le sue responsabilità. C’è una grande differenza, secondo Isnenghi, tra il Garibaldi uomo di azione e il Garibaldi ideologo, il cui pensiero si manifesta anche nei romanzi Clelia o il governo dei preti, Cantoni il volontario, I Mille e nell’incompiuto Manlio. Tanto estremista, mangiapreti, è quest’ultimo, tanto disposto al compromesso, a dire «obbedisco» è il primo. Unità degli opposti. Percorrendo il secolo e mezzo che ci separa dal Risorgimento, Isnenghi racconta come Garibaldi riuscì a mediare tra repubblicani e monarchia, a unire Nord e Sud, ma il suo mito seppe fare ancora di più, trovando sostenitori nell’Italia liberale, tra gli interventisti della Grande Guerra, al primo posto dei quali figurava Gabriele d’Annunzio, che a Quarto e a Roma, durante il «radioso maggio» del 1915, citò più volte l’eroe dei due mondi, e che nel «Natale di sangue» del 1920, a conclusione dell’impresa fiumana, rovesciò il fatidico «obbedisco» in un eclatante «disobbedisco». Tra gli interventisti che si ispiravano a Garibaldi anche una schiera democratica, da Cesare Battisti a Leonida Bissolati, da Gaetano Salvemini a Emilio Lussu. Il vero miracolo avvenne durante il fascismo, quando uno dei nipoti di Garibaldi, Ezio, stabilì una linea di continuità tra camicia rossa e camicia nera, imprese coloniali incluse. Mentre suo fratello Sante, esule in Francia, nel nome di Garibaldi fu interprete del più intransigente antifascismo. Si chiamò Garibaldi il battaglione di volontari italiani accorso in Spagna a sostegno della Repubblica, così come le Brigate Garibaldi furono le più forti formazioni partigiane, a guida comunista, nella nostra Resistenza. Garibaldi prestò il volto al Fronte popolare nelle elezioni del 1948, ma non si creda che nell’Italia del secondo dopoguerra il «mito del rivoluzionario disciplinato» sia rimasto esclusivo appannaggio della sinistra. In una nota conclusiva del libro si fa riferimento al duello che nel 1982 oppose Giovanni Spadolini a Bettino Craxi in occasione delle celebrazioni garibaldine. In quell’occasione si rivelò decisivo il giudizio della pronipote Anita Garibaldi, figlia di Sante, che optò per il capo del Partito repubblicano, trovando la formula craxiana del «socialismo tricolore» troppo lontana dalla tradizione garibaldina.
La disciplina del rivoluzionario Il libro di Mario Isnenghi, «Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato», esce martedì 12 da Donzelli (pagine 215, 12,50). Tra i saggi di Isnenghi, docente di storia contemporanea all’università di Venezia, ricordiamo «Il mito della Grande Guerra», «L’Italia in piazza», «Dalla Resistenza alla desistenza»
«Corriere della sera» dell’8 giugno 2007
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