16 luglio 2007

Lingue d’Europa bene di tutti

Tra nazioni e globalizzazione
di Francesco Sabatini
Si prepara a Firenze (Accademia della Crusca) e a Bologna (Università), per il 3 e 4 luglio, un incontro sul problema del multilinguismo nell’Unione Europea. Oggi, a Milano, alle 10.30, nella Sala dell’Accademia della Crusca allestita da tempo nella «Casa del Pane» (Caselli di Porta Venezia), una conferenza stampa annuncerà il programma di questo evento, che include anche l’XI edizione dei Premi «Galileo 2000»; verranno attribuiti in una cerimonia nel Parco della Villa medicea che ospita l’Accademia. Il secolo XIX, età dei «risorgimenti» - il nostro, ma anche quelli affini di Grecia, Ungheria e Polonia - ha fatto prevalere a lungo l’idea della lingua come bene strettamente legato alla «nazione». E questa, a sua volta, viene schematicamente identificata con lo Stato politico. Che il formarsi storico di una lingua sia connesso con la vita fortemente aggregata di una popolazione è certo ed evidente. E che l’aggregazione territoriale di una popolazione abbia creato sulla superficie terrestre, e ancor più nella mente degli individui, «confini» lineari e precisi, era, fin qui, inevitabile. Ma ragionando solo e rigidamente in questi termini, non si vedono altri processi, naturali e benefici, che si sono svolti anche nel lungo passato nazionale delle lingue. Le lingue possono avere vita e funzioni piene anche al di là dei confini e delle patrie di origine. Cominciò nell’antichità il greco, come lingua effettivamente parlata in vasti territori del Mediterraneo e nella società colta di Roma. Continuò il latino per tutto il Medioevo e oltre (ma come lingua soprattutto scritta, appresa dai libri). Venne poi, nel Basso Medioevo, il francese. Qui mi fermo e vengo al nostro tempo e ai suoi problemi, non so se più intricati e spinosi o, invece, più promettenti di buoni e bei frutti. Provo a delineare lo sfondo del quadro, riferendomi ovviamente al continente europeo e in particolare allo spazio dell’Unione Europea. Le lingue nazionali ufficialmente riconosciute si sono ormai tutte, più o meno, autodefinite, si sono affermate e si sono anche attrezzate per poter essere impiegate per i vari usi e attraverso i vari mezzi tecnologici, e si fronteggiano bellamente tra loro, come le squadre di atleti che sfilano negli stadi per le Olimpiadi. D’altra parte, è presente quotidianamente a ognuno di noi il bisogno, anche stringente, di un mezzo di comunicazione - parlata, scritta, trasmessa - abbastanza consistente, accettato prontamente in tutto lo spazio europeo e, ovviamente, anche al di fuori di questo. Si può fare a meno di una lingua con queste funzioni? Proprio no. Questa lingua è l’angloamericano e, checché si favoleggi, non è prevedibile che essa venga scalzata da questo posto almeno per altri decenni. L’ascesa (per numero di parlanti) di altre lingue in questa o quella parte del mondo non ne fa altrettanti strumenti mondiali del tipo che ci occorre. Che fare? Dobbiamo sottrarci al miraggio (per alcuni) o incubo (per altri) che si affermi dappertutto, più o meno presto, una superlingua buona per tutti gli usi, che ridurrebbe tutte le altre lingue a dialetti confinati in casa propria. La lingua mondiale può svolgere, per la massima parte dei parlanti non nativi (a parte i casi di Malta e dell’India, con il loro passato di colonizzati dalla Gran Bretagna), solo funzioni di lingua ausiliaria, diciamo «segretariale», magari di alta qualità. Sfuggiamo anche alla tentazione di scegliere qualche altra lingua, anche due o tre, da promuovere a comprimarie della superlingua, per mitigarne lo strapotere. Una tesi che alberga nella mente di alcuni uomini di cultura e, naturalmente, è cara ai due o tre Stati forti che vogliono essere egemoni in Europa (in tutti i campi: dietro le lingue c’è l’economia con la corrispondente politica). Torneremmo così addirittura all’epoca prerisorgimentale, dell’Europa dominata dalle «grandi potenze» (termine adoperato nei libri di storia) che ostacolavano l’indipendenza degli altri popoli. Occorre dunque una prospettiva diversa, adeguata alla situazione realmente nuova, qual è, piaccia o no, quella dell’Europa attuale e dell’immediato futuro, una comunione di popoli, che non può vivere se non sulla somma delle sue risorse ed energie di ogni genere. Per quanto riguarda le lingue, la prospettiva nuova scaturisce da un principio ovvio, ma che attende ancora di essere apertamente dichiarato: tutte le lingue d’Europa sono patrimonio comune di tutti i cittadini europei. Le lingue vanno messe accanto ad altri beni primari che affidiamo a una tutela collettiva: l’ambiente, il clima, le fonti di energia, la sicurezza, la salute. A ognuno di noi deve importare la salvaguardia e la vitalità di tutte le altre lingue, per poter attingere liberamente ad esse e acquisirne i contenuti di conoscenza: non solo quelli depositati in poemi e romanzi, ma quelli tesaurizzati nell’intera lingua, che ha costruito ed esprime una particolare visione e interpretazione del mondo. Proprio la presenza di una (e una sola) lingua «segretaria» universale ci dà la possibilità di far circolare più liberamente i valori di tutte le lingue, e di tornare con altri intenti, se e quando vogliamo, alla stessa lingua che ci offre quei servigi per farne, per libera scelta, anche la lingua «sposa». Che si affianca alla indispensabile lingua «madre», generatrice perenne dell’intera facoltà linguistica di ogni individuo. Senza dimenticare la funzione cardine degli interpreti e traduttori.
«Corriere della sera» dell’8 giugno 2007

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