di Stefania Vitulli
Si chiama book packaging ed è la nuova grande illusione dell’industria letteraria e cinematografica made in Usa. Il padre del fenomeno si chiama Edward Stratemeyer e ha posto le basi per le regole di un vero e proprio settore di business: si compilano una serie di striminzite sinossi, si assumono alcuni ghostwriter (o «negri», come si dice qui da noi, ovvero qualcuno che scriva al posto nostro) perché le sviluppino e le trasformino in romanzi o sceneggiature per serie tv o film, li si paga a forfait e poi si pubblicano i suddetti romanzi o si producono le suddette serie firmandole con diversi pseudonimi. Regola aurea: agli autori non è permesso parlare dei libri che hanno scritto, con nessuno e per nessun motivo. I loro nomi non compariranno mai, per preservare, ad esempio, uno dei più efficaci specchietti per allodole del marketing: che tutti i libri di una stessa serie siano stati scritti da uno stesso autore. Che a quel punto diventa una specie di logo, di garanzia di qualità.
Procedural thriller, horror anatomo-patologici, romanzi d’amore, saghe di eroi per bambini: molti di questi volumi vi saranno capitati per le mani e tra questi, molti sono frutto del book packaging. Vi sentite ingannati? Forse un pochino, perché vi abbiamo svelato il trucco. Ma il book packaging non viene considerato ingannevole, almeno dalla legge americana, perché soddisfa l’unica aspettativa che crea, ovvero entertainment, divertimento.
Come riconoscere dunque la creatività, l’opera d’arte originale, in tempi in cui produrre copiando, assemblando, tagliando e incollando è diventato così semplice?
Richard Posner, uno tra i giudici federali più in vista degli Stati Uniti, di recente inserito tra le venti più brillanti menti legali del Paese, docente emerito alla Law School di Chicago, magna cum laude ad Harvard e presidente della Harvard Law Review, ha cercato di rispondere a questa domanda con Il piccolo libro del plagio (Elliot, pagg. 118, euro 10), breve, istruttivo e arguto trattato su come riconoscere il plagiatore e i suoi trucchi e come farsi una ragione del fatto che ciò che consideriamo plagio spesso non solo è permesso dalla legge, ma è anche lauta fonte di guadagno.
Il volumetto di Posner parte dal recente caso che ha infiammato i media Usa, quello di Kaavya Viswanathan, fanciulla che a dispetto dei suoi diciassette anni aveva già firmato, nel 2004, un contratto per due libri con un ottimo marchio letterario americano, l’editrice Little, Brown (gruppo Hachette), che ha in catalogo, tra gli altri, Alexander McCall Smith, Patricia Cornwell e Anita Shreve. Kaavya aveva scucito alla Little, Brown un anticipo di mezzo milione di dollari sulle royalties e alla Dream Works una somma di denaro rimasta ignota per i diritti dei due romanzi.
Quando nella primavera del 2006 il suo primo libro venne pubblicato, Kaavya aveva diciannove anni e frequentava, manco a dirlo, il secondo anno ad Harvard. Bastò qualche settimana e il quotidiano The Harvard Crimson scoprì l’inganno: il libro di Kaavya riproduceva praticamente alla lettera numerosi passaggi tratti da romanzi di Megan McCafferty, autrice chick lit già affermata negli Usa. Ed era stata proprio un’agenzia di book packaging ad aiutare Kaavya a «concettualizzare e pianificare» il suo libro.
All’inizio la Little, Brown decise di epurare il romanzo dei passaggi incriminati e ripubblicarlo, ma poi si è scoperto che Kaavya aveva copiato anche da altri autori, compreso Salman Rushdie...
Giudice Posner, è ancora possibile dare una definizione di plagio?
«Il plagio è una tipologia di frode intellettuale che consiste in una copiatura non autorizzata di un’opera la cui originalità, unicità, viene riprodotta dal copiatore in modo occulto. Con il risultato che il pubblico si comporta diversamente da come farebbe se sapesse la verità: il lettore, ad esempio, acquista un libro che non avrebbe acquistato se avesse saputo che conteneva brani tratti dall’opera di un altro autore. Tuttavia, al lettore deve importare dell’inganno perché questo diventi frode e dunque plagio».
Insomma, un furto.
«Furto, pirateria, prestito - termine amato dagli apologeti del plagio - e anche violazione del copyright, sono tutti termini imprecisi. Ciò che rende il plagio un argomento affascinante è proprio l’ambiguità del concetto. Persino “copiare” è un termine che va usato con circospezione. Dan Brown avrebbe “copiato” i dettagli di una trama e di un personaggio. Ma se questa trama è generica, il personaggio è stereotipato e i fatti storici sono già noti, si tratta ancora di copiatura?».
L’informatizzazione aiuta il plagio?
«Senz’altro lo rende meno costoso, in termini di tempo e di denaro. Anzi, direi che internet lo rende addirittura gratuito».
Però il plagio è un crimine che viene da lontano...
«Alcuni dei più importanti personaggi della letteratura, dell’arte, della politica, hanno plagiato: Shakespeare, T.S. Eliot, Sterne, Swift, Coleridge, Nabokov, Rembrandt, e poi Martin Luther King e Vladimir Putin. Sono tutti citati nel libro».
Il plagio è un marchio che secondo lei nessuna grandezza cancella mai del tutto.
«Anche se i nomi che ho citato sono in realtà più “imitatori creativi” che plagiari, il plagio è un illecito che non si riesce a scordare. Non perché sia particolarmente riprovevole, ma perché è imbarazzante. Chi lo commette risulta patetico e quando insiste, ridicolo».
Negli Usa il plagio è molto diffuso?
«Le do solo un dato, al di là dei casi di plagio di autori celebri: si stima che più di un terzo degli studenti americani plagi i propri scritti da altri studenti, da professori o da autori di livello accademico. D’altra parte, nei Paesi europei è pratica comune che i professori pubblichino con il loro nome libri e articoli scritti dai loro assistenti e dal momento che il fatto è ben noto nei circoli accademici, non vi è alcuna frode».
Un vero cancro. Che cosa si sta facendo per combatterlo?
«Lo sviluppo di una serie di software “detective”, come Turnitin, permette di individuare i plagiari sempre più velocemente, grazie alla “sovrapposizione” di lunghe parti di testo. Ma pare non abbia un grande effetto deterrente. La gente plagia per i motivi più diversi: rendere il proprio prodotto più vendibile o migliore, risparmiare tempo. A volte anche solo per negligenza».
Quando apre un romanzo, che grano di creatività si aspetta per non considerarlo un plagio deludente?
«Non mi aspetto per forza che sia creativo. La creatività ha già a che fare col talento. Mi aspetto piuttosto che sia “diverso” da tutti gli altri. Ma se prima di leggerlo sospetto che sia un plagio, la vera delusione ce l’ho se mi sono sbagliato».
Procedural thriller, horror anatomo-patologici, romanzi d’amore, saghe di eroi per bambini: molti di questi volumi vi saranno capitati per le mani e tra questi, molti sono frutto del book packaging. Vi sentite ingannati? Forse un pochino, perché vi abbiamo svelato il trucco. Ma il book packaging non viene considerato ingannevole, almeno dalla legge americana, perché soddisfa l’unica aspettativa che crea, ovvero entertainment, divertimento.
Come riconoscere dunque la creatività, l’opera d’arte originale, in tempi in cui produrre copiando, assemblando, tagliando e incollando è diventato così semplice?
Richard Posner, uno tra i giudici federali più in vista degli Stati Uniti, di recente inserito tra le venti più brillanti menti legali del Paese, docente emerito alla Law School di Chicago, magna cum laude ad Harvard e presidente della Harvard Law Review, ha cercato di rispondere a questa domanda con Il piccolo libro del plagio (Elliot, pagg. 118, euro 10), breve, istruttivo e arguto trattato su come riconoscere il plagiatore e i suoi trucchi e come farsi una ragione del fatto che ciò che consideriamo plagio spesso non solo è permesso dalla legge, ma è anche lauta fonte di guadagno.
Il volumetto di Posner parte dal recente caso che ha infiammato i media Usa, quello di Kaavya Viswanathan, fanciulla che a dispetto dei suoi diciassette anni aveva già firmato, nel 2004, un contratto per due libri con un ottimo marchio letterario americano, l’editrice Little, Brown (gruppo Hachette), che ha in catalogo, tra gli altri, Alexander McCall Smith, Patricia Cornwell e Anita Shreve. Kaavya aveva scucito alla Little, Brown un anticipo di mezzo milione di dollari sulle royalties e alla Dream Works una somma di denaro rimasta ignota per i diritti dei due romanzi.
Quando nella primavera del 2006 il suo primo libro venne pubblicato, Kaavya aveva diciannove anni e frequentava, manco a dirlo, il secondo anno ad Harvard. Bastò qualche settimana e il quotidiano The Harvard Crimson scoprì l’inganno: il libro di Kaavya riproduceva praticamente alla lettera numerosi passaggi tratti da romanzi di Megan McCafferty, autrice chick lit già affermata negli Usa. Ed era stata proprio un’agenzia di book packaging ad aiutare Kaavya a «concettualizzare e pianificare» il suo libro.
All’inizio la Little, Brown decise di epurare il romanzo dei passaggi incriminati e ripubblicarlo, ma poi si è scoperto che Kaavya aveva copiato anche da altri autori, compreso Salman Rushdie...
Giudice Posner, è ancora possibile dare una definizione di plagio?
«Il plagio è una tipologia di frode intellettuale che consiste in una copiatura non autorizzata di un’opera la cui originalità, unicità, viene riprodotta dal copiatore in modo occulto. Con il risultato che il pubblico si comporta diversamente da come farebbe se sapesse la verità: il lettore, ad esempio, acquista un libro che non avrebbe acquistato se avesse saputo che conteneva brani tratti dall’opera di un altro autore. Tuttavia, al lettore deve importare dell’inganno perché questo diventi frode e dunque plagio».
Insomma, un furto.
«Furto, pirateria, prestito - termine amato dagli apologeti del plagio - e anche violazione del copyright, sono tutti termini imprecisi. Ciò che rende il plagio un argomento affascinante è proprio l’ambiguità del concetto. Persino “copiare” è un termine che va usato con circospezione. Dan Brown avrebbe “copiato” i dettagli di una trama e di un personaggio. Ma se questa trama è generica, il personaggio è stereotipato e i fatti storici sono già noti, si tratta ancora di copiatura?».
L’informatizzazione aiuta il plagio?
«Senz’altro lo rende meno costoso, in termini di tempo e di denaro. Anzi, direi che internet lo rende addirittura gratuito».
Però il plagio è un crimine che viene da lontano...
«Alcuni dei più importanti personaggi della letteratura, dell’arte, della politica, hanno plagiato: Shakespeare, T.S. Eliot, Sterne, Swift, Coleridge, Nabokov, Rembrandt, e poi Martin Luther King e Vladimir Putin. Sono tutti citati nel libro».
Il plagio è un marchio che secondo lei nessuna grandezza cancella mai del tutto.
«Anche se i nomi che ho citato sono in realtà più “imitatori creativi” che plagiari, il plagio è un illecito che non si riesce a scordare. Non perché sia particolarmente riprovevole, ma perché è imbarazzante. Chi lo commette risulta patetico e quando insiste, ridicolo».
Negli Usa il plagio è molto diffuso?
«Le do solo un dato, al di là dei casi di plagio di autori celebri: si stima che più di un terzo degli studenti americani plagi i propri scritti da altri studenti, da professori o da autori di livello accademico. D’altra parte, nei Paesi europei è pratica comune che i professori pubblichino con il loro nome libri e articoli scritti dai loro assistenti e dal momento che il fatto è ben noto nei circoli accademici, non vi è alcuna frode».
Un vero cancro. Che cosa si sta facendo per combatterlo?
«Lo sviluppo di una serie di software “detective”, come Turnitin, permette di individuare i plagiari sempre più velocemente, grazie alla “sovrapposizione” di lunghe parti di testo. Ma pare non abbia un grande effetto deterrente. La gente plagia per i motivi più diversi: rendere il proprio prodotto più vendibile o migliore, risparmiare tempo. A volte anche solo per negligenza».
Quando apre un romanzo, che grano di creatività si aspetta per non considerarlo un plagio deludente?
«Non mi aspetto per forza che sia creativo. La creatività ha già a che fare col talento. Mi aspetto piuttosto che sia “diverso” da tutti gli altri. Ma se prima di leggerlo sospetto che sia un plagio, la vera delusione ce l’ho se mi sono sbagliato».
«Il Giornale» del 12 giugno 2007
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