14 luglio 2007

Parola d’ordine: innovare

Dilatare le avanguardie, superarle. Come in un gioco di società
di Sebastiano Grasso
«Per lanciare un manifesto bisogna volere: scagliare invettive contro 1, 2, 3, eccitarsi e aguzzare le ali per conquistare e diffondere grandi e piccole a, b, c, firmare, gridare, bestemmiare, imprimere alla propria prosa l’accento dell’ovvietà assoluta, irrifiutabile, dimostrare il proprio non-plus-ultra e sostenere che la novità somiglia alla vita, tanto quanto l’ultima apparizione di una cocotte dimostri l’essenza di Dio». Certo, un’apologia paradossale, questa di Tristan Tzara, datata 1918. Il padre del dadaismo non ne può più di teorie neoimpressioniste e cubiste, di manifesti sfornati in continuazione dai futuristi. A colpi di manifesti, le avanguardie stesse si contraddicono e vengono superate da altre avanguardie. Per le arti visive, il ‘900 - che Hobsbawn definisce «il secolo breve» - è certo il secolo più ricco di avanguardie e movimenti. Dall’Impressionismo in poi, la parola d’ordine è innovare, superare il già fatto, progredire verso un’artisticità sempre più espansa, capace di tenere creativamente il passo con l’evolversi della società e, soprattutto, delle tecniche. In tutto questo susseguirsi frenetico, gli artisti fondano gruppi e riviste, lanciano proclami, ma diventano, anche, star mediatiche. Attenzione: non casualmente, ma per una vera e propria strategia. Un esempio? Andy Warhol. E, prima di lui, Salvador Dalí. Anche la foto dell’artista e la sua firma diventano opera d’arte. Non è Marcel Duchamp che, provocatoriamente, considera tale un orinatoio per il solo fatto che è firmato e datato? E che fa il suo nipotino diretto Piero Manzoni? Firma direttamente le modelle in carne e ossa, diffonde le proprie impronte digitali e, addirittura, inscatola i propri escrementi. «Artistici», solo perché prodotti da un artista. A onor del vero, su quest’ultima cosa c’è anche una versione diversa. Me l’ha raccontata Mario Perazzi, «vice» di Dino Buzzati, alla pagina dell’Arte del Corriere. Durante una discussione serale, fra amici in via Brera - presente sia il giovane Manzoni che Perazzi - qualcuno se ne esce dicendo: «Sotto la parola arte, oggi si vende di tutto. E, secondo me, si venderebbe anche la merda». Detto e fatto. Su altri piani, gli artisti hanno spinto al limite le tecniche della pittura, oppure ne hanno completamente ribaltato i «codici». Fa scandalo Matisse nell’usare colori non verosimili per dipingere un paesaggio o una figura; Picasso nel descrivere un oggetto componendo e ricomponendo la sua rappresentazione geometrica; Magritte nel creare lucide situazioni oniriche; Duchamp nell’appendere uno scolabottiglie dicendo che è una scultura; Schwitters nell’inserire oggetti e pezzi di giornali nei quadri, mentre Rauschenberg usa copertoni d’auto e animali impagliati; Oldenburg nel riprodurre artificialmente confezioni commerciali; Marina Abramovic nel fare di se stessa un’opera d’arte, e così via. Prima reazione? Di rifiuto perché si è davanti a una provocazione gratuita. È vero? Non sempre. Dall’800 a oggi, gli artisti non hanno fatto altro che spargere i semi del dubbio, porre domande in un mondo che cambia con una velocità sempre più accentuata. Provocatori per eccellenza, i dadaisti si chiedono perché meravigliarsi di opere senza senso in un’epoca in cui la guerra mondiale non è forse la cosa più insensata? Ergo, perché non ammettere che oggi si possa fare arte con computer e videocamera, nel momento in cui troviamo normale trascorrere, quasi ipnotizzati, giornate intere davanti a una tastiera e prender per buona qualsiasi fesseria diffusa su You Tube da un telefonino? Ecco, Art Now parla dell’arte d’oggi, quella che i francesi chiamato art vivant. Affronta temi di estrema attualità (i New media), i mezzi tecnologici (videoinstallazioni, l’uso sofisticato della fotografia), fa il punto sull’arte del ‘900, protagonista, in questi ultimi anni, di iniziative espositive, anche se non sempre di qualità. Ma per fare questo, occorre capire perché le avanguardie sono state avanguardie e perché l’arte che vediamo oggi ci somiglia di più di quanto siamo disposti ad ammettere.
«Corriere della sera» del 25 maggio 2007

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