Procreazione assistita, la relazione del ministro Turco
di Eugenia Roccella
La relazione del ministero della Salute sullo stato della procreazione assistita nel nostro Paese mette in evidenza un primo, clamoroso risultato: il sensibile aumento di donne che hanno fatto ricorso alla Procreazione medicalmente assistita (Pma). Da 17.125 nel 2003 siamo passati a 27.254 nel 2005 (più 10.000), e da 4807 gravidanze a 6235. Anche i centri che effettuano la Pma sono aumentati, diffondendosi sul territorio. Mettere ordine nella situazione priva di regole che si era creata prima della legge 40, è servito a promuovere le pratiche di fecondazione assistita, incoraggiando le donne a farvi ricorso e facendo nascere più bambini. Un dato positivo. Eppure, tutta l'attenzione sembra concentrarsi su un numero ben più piccolo - questa volta negativo - un modesto 3,6: è il calo percentuale di gravidanze nello stesso biennio. Questa riduzione rischia di diventare la chiave di lettura di tutta la relazione.
Sembra davvero difficile tracciare un bilancio sereno della legge 40: ogni informazione viene utilizzata a scopo ideologico, e non per tutelare al meglio gli interessi in gioco, cioè quelli delle donne, dei bambini e degli embrioni. Ma se volessimo cercare di capire, più che fare polemiche, dovremmo fare qualche appunto alla relazione. Prima di tutto presentare i dati solo in termini di "produttività", cioè di gravidanze ottenute, è fuorviante. Quello che ci interessa non è solo la quantità, ma la qualità. Sappiamo che i diversi centri ottengono risultati molto diversi; bisognerebbe offrire alle donne una totale trasparenza, e comunicare, oltre ai numeri assoluti, quelli relativi, con i dati disaggregati. Due anni fa i fautori del referendum chiedevano l'abolizione del limite di 3 embrioni da impiantare, sostenendo che questo avrebbe fatto abbassare la percentuale di successo. Oggi si sa invece che si raggiungono migliori risultati impiantando un solo embrione, e paradossalmente le "colpe" della legge 40 si sono rovesciate: non più l'accusa di permettere la p roduzione e l'impianto di pochi embrioni, ma, al contrario, quella di obbligare ad impiantarne troppi.
In realtà la legge è perfettamente in linea con la tendenza attuale a impiantare un unico embrione, producendone uno alla volta, magari grazie al congelamento degli ovociti. È importante, quindi, sapere quali sono i centri che offrono i migliori risultati, e quali tecniche utilizzano, per selezionare le pratiche meno invasive, più rispettose ed efficienti. Vorremmo sapere anche molto altro. Per esempio, nella stessa relazione si segnala che il 60,7% dei cicli è effettuato su coppie oltre i 34 anni: la diminuzione di successi del 3,6%, calcolata dal ministero, potrebbe essere dovuta a un maggiore afflusso di pazienti in età troppo avanzata, ma non ci sono confronti con il 2003.
La relazione dovrebbe anche dirci di più sull'intero sviluppo dei trattamenti, oggi troppo incerto per tracciare un bilancio credibile sull'effettivo funzionamento della legge. Del 47,8% delle gravidanze non si sa più niente, nemmeno se sono giunte a buon fine; niente quindi si può sapere sulla salute dei bambini eventualmente nati, né su quella delle madri. Questo vuoto d'informazione incide sulla valutazione degli esiti negativi delle gravidanze, che secondo il ministro sarebbero «correlati all'obbligo di impianto di tutti gli embrioni». Come si può affermarlo se manca quasi la metà dei dati? Come si legge nella relazione stessa, «l'elevata perdita di informazioni sul decorso delle gravidanze e sui nati, inficia la possibilità di dare informazioni significative sulla sicurezza delle tecniche e sui loro esiti».
Sembra davvero difficile tracciare un bilancio sereno della legge 40: ogni informazione viene utilizzata a scopo ideologico, e non per tutelare al meglio gli interessi in gioco, cioè quelli delle donne, dei bambini e degli embrioni. Ma se volessimo cercare di capire, più che fare polemiche, dovremmo fare qualche appunto alla relazione. Prima di tutto presentare i dati solo in termini di "produttività", cioè di gravidanze ottenute, è fuorviante. Quello che ci interessa non è solo la quantità, ma la qualità. Sappiamo che i diversi centri ottengono risultati molto diversi; bisognerebbe offrire alle donne una totale trasparenza, e comunicare, oltre ai numeri assoluti, quelli relativi, con i dati disaggregati. Due anni fa i fautori del referendum chiedevano l'abolizione del limite di 3 embrioni da impiantare, sostenendo che questo avrebbe fatto abbassare la percentuale di successo. Oggi si sa invece che si raggiungono migliori risultati impiantando un solo embrione, e paradossalmente le "colpe" della legge 40 si sono rovesciate: non più l'accusa di permettere la p roduzione e l'impianto di pochi embrioni, ma, al contrario, quella di obbligare ad impiantarne troppi.
In realtà la legge è perfettamente in linea con la tendenza attuale a impiantare un unico embrione, producendone uno alla volta, magari grazie al congelamento degli ovociti. È importante, quindi, sapere quali sono i centri che offrono i migliori risultati, e quali tecniche utilizzano, per selezionare le pratiche meno invasive, più rispettose ed efficienti. Vorremmo sapere anche molto altro. Per esempio, nella stessa relazione si segnala che il 60,7% dei cicli è effettuato su coppie oltre i 34 anni: la diminuzione di successi del 3,6%, calcolata dal ministero, potrebbe essere dovuta a un maggiore afflusso di pazienti in età troppo avanzata, ma non ci sono confronti con il 2003.
La relazione dovrebbe anche dirci di più sull'intero sviluppo dei trattamenti, oggi troppo incerto per tracciare un bilancio credibile sull'effettivo funzionamento della legge. Del 47,8% delle gravidanze non si sa più niente, nemmeno se sono giunte a buon fine; niente quindi si può sapere sulla salute dei bambini eventualmente nati, né su quella delle madri. Questo vuoto d'informazione incide sulla valutazione degli esiti negativi delle gravidanze, che secondo il ministro sarebbero «correlati all'obbligo di impianto di tutti gli embrioni». Come si può affermarlo se manca quasi la metà dei dati? Come si legge nella relazione stessa, «l'elevata perdita di informazioni sul decorso delle gravidanze e sui nati, inficia la possibilità di dare informazioni significative sulla sicurezza delle tecniche e sui loro esiti».
«Avvenire» del 3 luglio 2007
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