Contestatori della Shoah tra diritto di parola e falsificazione della storia. Gli studiosi si confrontano
di Edoardo Castagna
Veneruso: «In questo caso il tribunale non serve: occorre confutare le tesi»Luzzatto: «Così si dà spazio ai nostalgici» Perfetti: «Anch’io avrei chiuso l’ateneo»
Alla fine non ha parlato, Robert Faurisson. Scacciato dalle aule dell'Università, rifiutato da un paio di alberghi, alla fine messo in fuga anche dalla pubblica piazza di Teramo a suon - pare - di spintoni. L'intervento dello storico francese, negazionista della Shoah, in un'università statale italiana aveva fatto discutere. C'era chi invocava la libertà di parola, comunque e dovunque; c'era chi si appellava piuttosto alla necessità di difendere la verità dei fatti. Che, nel caso della Shoah, coincide con la memoria di milioni di vittime del razzismo nazista. Sulle colonne di Avvenire, nei giorni scorsi Franco Cardini aveva messo in guardia contro il rischio di trasformare i negazionisti in martiri, e aveva invitato a puntare, piuttosto, sulla sistematica confutazione dei loro argomenti; Anna Foa, domenica scorsa, ha poi messo in chiaro come non ci sia nessuno scontro storiografico - negazionisti contro «sterminazionisti» -, bensì un'opposizione tra la realtà - la Shoah, assodata al di là di ogni ombra di dubbio - e la sua negazione. Una «caricatura» del metodo storico, fatta di negazione dei fatti e di falsificazione della realtà, che rifiuta come sospette tutte le testimonianze - vengono da ebrei... -, che rigetta come ambigue o inventate le prove materiali, e che regolarmente si appella all'assenza di un ordine scritto del tipo: «Sterminate gli ebrei. Firmato: Hitler». Lo storico Danilo Veneruso ribatte ricordando che «I nazisti parlavano di "soluzione finale" (Endlösung), e gli ordini relativi venivano impartiti per via fiduciaria, investendo del compito alcune personalità civili e militari: i Mengele, gli Eichmann. Ora, si può dire ogni cosa, ma la tesi negazionista è insostenibile: la Shoah è dimostrata da una lunga catena di fatti, che si inanellano dall'avvento del nazismo fino ad Auschwitz. Ma questo non significa che i negazionisti non abbiano diritto di parola: ognuno può sostenere quelle che vuole, ed è responsabile delle sue azioni. Le responsabilità s ono del singolo storico che parla, dell'università che, eventualmente, lo ospita. Io sono nettamente contrario a ogni idea, anche la più sfumata, di negazionismo: ma il tribunale della storiografia non può essere quello delle aule giudiziarie, bensì quello della puntuale confutazione, della dimostrazione documenti alla mano. Certo, il rischio che, dando spazio a queste tesi, si finisca per accreditarle c'è. Ma questo è il prezzo della democrazia, di quella democrazia per la quale sono morti milioni di persone - inclusi gli ebrei». Il problema resta quello delle sedi in cui la libertà di parola si esercita. A destare scalpore, a Teramo, è stato soprattutto l'invito accademico rivolto a Faurisson da Claudio Moffa, docente alla locale Università: «Quando si negano determinati fatti - osserva Francesco Perfetti - io dubito che in sedi istituzionali o pubbliche si possa lasciare spazio a simili manifestazioni, non più espressione di libero pensiero ma fattore di turbativa. Io sono personalmente contrario a ipotetiche leggi che puniscano i negatori della Shoah, perché sarebbero liberticide, ma le tesi di Faurisson non stanno né in cielo né in terra: dargli spazio in un'istituzione pubblica significherebbe avallarlo con i crismi dell'ufficialità accademica. Sarebbe pericoloso. Nel campo della ricerca storica, agli errori e alla falsità si risponde con la confutazione, altrimenti rischiamo di creare martiri. Il che non significa lasciar correre tutto, in nome della libertà di pensiero: no, bisogna che la verità sia sottolineata, anche se questo significa concedere spazio ai falsificatori. Il problema è delicato, ma se fossi stato nei panni del rettore di Teramo - conclude lo storico - avrei agito allo stesso modo». Ed è proprio la cornice accademica ciò che indigna anche Amos Luzzatto: «Non vede per quale motivo oggi un'università italiana debba cercare in Francia un personaggio notoriamente già sbugiardato... Qual è lo scopo che si cerca di ottenere? Riabilitare le persec uzioni naziste? Chiamare a raccolta i nostalgici? E come sempre, come tutte le volte in cui si vuol fare una campagna che suscita giusta indignazione, si tira in ballo la libertà di espressione. Ma qui si diffonde odio e pregiudizi, e si umilia il termine "libertà di espressione"». A Teramo è finita a spintoni, e Faurisson ha dovuto fare dietrofront. «Aggredire è sempre male - ribatte Luzzatto -. Ma qui stiamo parlando di figli di deportati in lager. Credo che ad Auschwitz volasse qualcosa di peggio che qualche spintone».
«Avvenire» del 19 maggio 2007
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