04 luglio 2007

No alla pillola che sbianchetta la memoria

di Luigi Testaferrata
È una notizia ormai vecchia, già bruciata dalla ventina di giorni che sono passati da quando è stata diffusa in tutto il mondo da tutti i mezzi di comunicazione: ma se non fa più il chiasso dei primi momenti, è come un fuoco che cova sotto la cenere, una fiaccola nascosta sotto il moggio, prima o poi riapparirà, e non più come notizia, ma come realtà scientifica, come prodotto industriale pronto ad essere diffuso in ogni parte della terra. Per lobotomizzarla, per renderla idiota, per privarla di uno dei pochi segnali di guardia che le impediscono di cascare nell'ebetismo pieno. Parlo della pillola che annulla la memoria delle cose spiacevoli: vale a dire degli sbagli fatti, dei delitti commessi, dei dolori sofferti, degli insuccessi, delle bocciature patite, dei rimproveri ricevuti, delle delusioni in amore e in carriera, dei tradimenti, dei torti, delle violenze, del Mr. Hyde, insomma, che ciascuno si porta dentro, più o meno vergognosamente nascosto, più o meno orgogliosamente esibito. A prima vista, la cosa potrebbe interessarci: tutti vergini, tutti angeli, tutti Emili russoiani, tutti Carlini Altoviti prima di crescere e diventare ottuagenari. Ma se la pillola diventasse incontrollabile e cancellasse anche i ricordi delle cose buone? Se facesse un deserto delle nostre menti, delle nostre coscienze? Se abolisse, tout court, la memoria, che succederebbe di noi? L'idea di diventare varianti dei personaggi di «Fahrenheit 451» le cui memorie vengono distrutte due volte, una col fuoco che divora i libri, l'altra con la repressione che annulla la coscienza (e i pochi che tentano di salvare il passato sono costretti a rimpiattarsi nelle foreste, ad affidare alla mente le pagine che sono proibite): la prospettiva di trasfigurarci in robot senza storia che prima o poi partiranno verso lontanissima galassie in viaggi senza ritorno; sono un'idea e una prospettiva che non ci consolano. Anche perché esperienze e dimensioni fantascientifiche di questo genere, se sono proprie di menti nate e cresciute nei giorni freddi e brevi, nelle notti interminabili dei Paesi del Nord, non appartengono alla nostra cultura. La nostra cultura si giova di una lingua che comincia nel segno di una persuasione nata dalla memoria («Sao ko kelle terre...»), comincia a brillare nelle parole iniziali della «Vita nuova» di Dante («In quella parte del libro della mia memoria...»), è arrivata fino a noi per salvare col ricordo del bene e del male (penso a Primo Levi - ma quanti altri già sono vicini!) la vera essenza dell'uomo, la memoria della sua origine divina, della sua perenne posizione dinanzi al peccato e alla santità e alla grandezza che gli viene dalla libertà di scegliere questo o quello. Come potremo barattare tante cose con una tranquillizzante, annichilente, dopante pillola?
«Avvenire» del 1 maggio 2007

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