I due volti della politica energetica italiana in un saggio di Mauro Canali: dal 1914 alla guerra d’Etiopia
di Dino Messina
Nel 1928 chiese l’appoggio americano: aiutateci a sfruttare i pozzi di Mosul. Una lettera all’ambasciatore
C’è stato un momento, alla metà degli anni Trenta, in cui l’Italia, attraverso l’Agip, aveva ottenuto la concessione per lo sfruttamento di pozzi petroliferi in Iraq pari a trentaduemila barili al giorno, corrispondenti a 1.750.000 tonnellate all’anno. La valutazione, fatta da Umberto Puppini, presidente dell’Agenzia italiana petrolifera, faceva ben sperare per il futuro energetico del Paese, che entro breve non solo avrebbe raggiunto l’autonomia, ma sarebbe diventato esportatore. Era questo un motivo d’orgoglio per Benito Mussolini, che per ben tre volte aveva cercato di mettere le mani sui ricchi giacimenti di Mosul, un’area assegnata dopo la disgregazione dell’Impero Ottomano al neonato Iraq, sotto la tutela britannica. I primi due tentativi di inserirsi nel grande gioco energetico, che vedeva egemone il triangolo anglo-francese-americano, erano andati a vuoto per motivi non dipendenti dal capo del fascismo. Ma quando finalmente nel 1935 il risultato venne raggiunto, l’impresa etiopica e il dissennato sogno imperiale condussero all’isolamento internazionale dell’Italia, e alla batosta economica delle «inique sanzioni», e Mussolini diede mandato all’Agip di vendere la quota maggioritaria nella Mosul Oil Fields. Questa storia appassionante ci viene raccontata sulla scorta di documenti inediti di fonte italiana, ma soprattutto del Foreign Office e dei National Archives di Washington, da Mauro Canali nel saggio Mussolini e il petrolio iracheno (Einaudi). In realtà il titolo è un po’deviante, perché il libro dedica le prime due parti alla ricostruzione della politica energetica italiana e occidentale, per concentrarsi soltanto nella terza su Mussolini. La lunga analisi è tuttavia necessaria, perché ci mostra quanto tempestiva, lungimirante e priva di scrupoli fosse la politica energetica delle potenze vittoriose e quanto arretrata e miope quella dei nostri governi liberali, legati a una vecchia concezione territoriale del colonialismo. Mentre i francesi, ma soprattutto gli inglesi e gli americani, stavano elaborando una nuova fase postcoloniale che si può così riassumere: no al costoso possesso di territori e massimo controllo delle risorse economiche. Nella fase iniziale della corsa al petrolio la diplomazia non faceva ricorso a ipocriti veli retorici, ma dichiarava apertamente i propri obiettivi, al punto che l’idealista presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, denunciando gli accordi segreti tra Francia e Inghilterra, aveva rivendicato esplicitamente presso i governi alleati un ruolo nella spartizione delle risorse. L’Italia, sia agli incontri di Parigi sia a quelli di Londra, si era attestata sulle posizioni riassunte da Sidney Sonnino nello slogan del «sacro egoismo». Il che significava rivendicazioni territoriali, si trattasse di una striscia di costa dalmata o dell’arido altopiano anatolico. Due istanze che avevano irritato il presidente Wilson, il quale accusava l’Italia di miopia, e naturalmente la neonata Turchia di Kemal Ataturk. Gli unici leader liberali a capire che le richieste italiane dovevano concentrarsi nel campo energetico furono il vecchio Giovanni Giolitti e il suo ministro degli Esteri Carlo Sforza, quando ormai era troppo tardi. L’impostazione della nostra politica estera cambiò con Mussolini, il quale già nel novembre 1922 chiese, prima della conferenza di Losanna, un incontro con lord George Curzon, leader britannico, e con il francese Raymond Poincaré, allo scopo di arrivare a «parità di condizioni economiche». Questa prima sortita revisionistica di Mussolini non ebbe alcun effetto, anche per le abili manovre dilatorie di Curzon e per gli interventi del «partito britannico» all’interno del nostro ministero degli Esteri, capeggiato dal segretario generale Salvatore Contarini. Il secondo intervento di Mussolini per inserirsi nel grande gioco energetico risale al 6 febbraio 1928, quando scrisse all’ambasciatore a Washington Giacomo De Martino di far pressioni presso il dipartimento di Stato per dare all’Italia una quota di azioni nella Turkish Petroleum Company. Una richiesta imbarazzante, perché in quel momento il governo del presidente repubblicano Calvin Coolidge era scosso da uno scandalo che aveva portato in galera un alto dirigente della Standard Oil. Tuttavia fu promesso che, previa approvazione dei partner britannici, l’Italia sarebbe entrata nel business petrolifero al prossimo aumento di capitale. Una promessa che non si concretizzò mai. La terza occasione si presentò nel 1928 quando un gruppo di finanzieri inglesi costituì una società, la British Oil Developments, poi Mosul Oil Fields, nata per far concorrenza alla monopolista Ipc quando l’Iraq aveva raggiunto l’indipendenza e aveva deciso di assegnare nuove concessioni. L’Agip riuscì a diventare partner al 25 per cento della Mosul Oil Fields e poi, grazie all’appoggio governativo, ne conquistò la maggioranza. Ma il sogno lungimirante finalmente realizzato, e con esso gli interessi materiali dell’Italia, veniva sacrificato sull’altare del nuovo imperialismo, cioè su una politica coloniale tradizionale che già tanti danni aveva fatto con i governi liberali.
Una lettera all’ambasciatore Il libro di Mauro Canali «Mussolini e il petrolio iracheno. L’Italia, gli interessi petroliferi e le grandi potenze», è pubblicato da Einaudi (pagine 204, 15). In appendice al libro, scritto sulla base di materiale per lo più inedito, la lettera che Benito Mussolini scrisse il 6 febbraio 1928 all’ambasciatore italiano a Washington, Giacomo De Martino. «È venuto il momento di riprendere la nostra azione - esortava il capo del governo fascista -, giacché quello che importa soprattutto all’Italia non è già di ottenere una forte quota nella Turkish Petroleum Co. (...) ma di avere una, anche minima, partecipazione, che le dia diritto di essere presente alle deliberazioni sociali». A questo scopo era necessaria «una efficace azione» presso il governo di Washington, perché spingesse le compagnie americane a cedere all’Italia piccole quote.
«Corriere della Sera» del 23 maggio 2007
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