09 luglio 2007

Generosità e amicizia: così nascono i «buoni maestri»

Nella vita di Maria Corti la dimostrazione che per formare una scuola serve soprattutto umanità
di Paolo Di Stefano
Quando si parla di maestri del Novecento letterario, come si è fatto di recente, scrittori e critici, più e meno giovani, sembrano prigionieri di una sorta di coazione a ripetere i soliti nomi: Pasolini e Calvino, Fortini e Contini, Debenedetti e Garboli. È un peccato, perché si finisce per ignorare personalità che hanno avuto, oltre a un riconosciuto valore e prestigio culturale, l’entusiasmo e l’ostinazione degli autentici maestri (il che non si può dire dei nomi solitamente citati). Una di queste personalità è stata la scrittrice e studiosa Maria Corti, di cui sembrano essersi dimenticati tanti critici militanti e accademici, ma non gli amici e gli ex allievi oggi insegnanti, filologi, storici della lingua, editori, giornalisti, poeti, che hanno avuto il privilegio di conoscerne la generosità, appunto, di vera maestra. Cristina Nesi, per esempio, ha ripubblicato tempo fa per Bompiani un libro prezioso, Dialogo in pubblico, che contiene una lunga intervista in cui Maria Corti racconta la sua esperienza del/nel Novecento: i suoi amici, i suoi scrittori, i suoi compagni di strada, i suoi maestri, appunto. Tra questi ultimi emerge il linguista e critico Benvenuto Terracini: dal colloquio continuo tra lui e gli studenti - ricorda la Corti - nasceva «un eccezionale sodalizio delle menti», perché «offriva quella figura illuminata del maestro, che è uno dei pochi doni della scuola ( ), conosceva bene i singoli allievi, e si preparava a guidarli ». Un merito di Terracini era quello di «dare un’impronta intellettuale alla sua scuola e di creare un forte rapporto di amicizia fra gli allievi». Una rarità nel mondo universitario: questo «archetipo», diceva la Corti, «si è imposto alla mia ammirazione e imitazione». E’sorprendente come in genere, parlando di maestri, si trascurino concetti in apparenza banalissimi: generosità, scuola, amicizia, guida, ammirazione, imitazione Ci sono «maestri» che non hanno mai avuto un allievo semplicemente perché il loro narcisismo non è ammirevole; altri non conoscono la generosità e rimangono rigidi in cattedra pur non insegnando più, disprezzando anche gli allievi migliori e coltivando con gelosia solo il proprio minuscolo orto per tutta la vita. Se il Piccolo fratello ha deciso di soffermarsi su Maria Corti, è per testimoniare che c’era un tempo in cui esistevano, in università, maestri in carne e ossa, capaci di formare una scuola non solo in virtù dei loro straordinari studi ma anche attraverso la loro umanità. In un numero monografico della rivista Arte & Storia dedicato a Maria Corti, a cura di Arturo Colombo e Angelo Stella, due suoi allievi, Fabio Pusterla e Claudia Patocchi, ricordano giustamente che la Corti aveva una straordinaria forma di fiducia nel compito di irradiare la cultura (e gli studi, fossero su Dante, sulla neoavanguardia o sulla lingua del rock demenziale), di trasmetterla agli altri, ben sapendo che si trattava di «un’assunzione intransigente di responsabilità». Certo, ci vuole una buona dose di altruismo e di senso di responsabilità per essere bravi maestri. E a proposito di irradiazione della cultura: ne sa qualcosa un editore come Manni, che da Lecce ha avuto un intenso sodalizio con Maria Corti e che da sempre rende omaggio alla studiosa e all’amica ricordandola e pubblicandone gli inediti. Come il racconto giovanile La leggenda di domani, uscito in questi giorni (a cura di un’altra allieva della Corti, Anna Longoni): si tratta di un breve romanzo autobiografico di ambiente salentino in cui la sedicenne Paola, orfana milanese, fugge da un convento e si rifugia per anni presso una famiglia di pescatori. Perché la Corti decise di non pubblicarlo?, si chiede Cesare Segre nella prefazione. In parte le ragioni si trovano nelle lettere al suo maestro Terracini, perché i maestri veri a volte sono anche confidenti e consiglieri. La stessa Corti lo sarebbe stata, per molti suoi più giovani amici. Ma questo è un altro discorso.
«Corriere della Sera» del 29 maggio 2007

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