Il saggio-ritratto dedicato a Berardinelli scatena il dibattito tra i giovani critici
di Cristina Taglietti
Cortellessa: ci manca un Fortini. Trevi: oggi a volte chi insegna sono gli allievi
Ma sono davvero finiti i maestri? Il volume su Alfonso Berardinelli curato da Emanuele Zinato per Le Lettere, Il critico come intruso, che mette in discussione i mostri sacri e le scuole letterarie del Novecento, a cui Paolo Di Stefano ha dedicato un ampio articolo sul Corriere di sabato, rimbalza alla Fiera del libro e suscita un dibattito che mostra quanto la questione sia ancora vitale e agiti anche i critici della nuova generazione. Così, se Alfonso Berardinelli considera Franco Fortini un «cattivo maestro» perché «accettava che la letteratura venisse giudicata attraverso il marxismo mentre la letteratura non poteva giudicare il marxismo», c’è chi, come Andrea Cortellessa, di un maestro ideologico come Fortini sente fortemente la mancanza. «Oggi dobbiamo riappropriarci di strumenti ideologici. Con il marxismo è stato buttato via tutto un tessuto culturale, un sistema forte di interpretazione della realtà, con il risultato che l’unica ideologia che subiamo è quella del mercato. Oggi non ci sono scuole, non ci sono personaggi come Vittorini che costruiva, magari sbagliando, delle collane sulla base di un progetto, di una visione globale. Il risultato è che non c’è più cultura, ci sono solo, ogni tanto, buoni testi». «Io preferisco parlare di onestà intellettuale, più che di ideologia - ribatte Silvio Perrella -. La stroncatura di Fortini al Gattopardo fa male perché si capisce che per lui è una lettura feconda, ma non può dirlo per ragioni politiche». Distingue due piani, quello disciplinare e quello umano, Emanuele Trevi che sabato a Torino presentava I movimenti remoti di Goffredo Parise da lui curato per Fandango. Il saggio introduttivo Trevi (che si considera con Tiziano Scarpa il critico che ha preso di più da Berardinelli) l’ha dedicato proprio alla memoria di uno dei maestri più controversi degli ultimi anni, Cesare Garboli. «I due modi di essere maestri - dice Trevi - sono ben rappresentati dalla coppia Contini-Debenedetti. Il primo rappresenta la scienza, ti dà la "cassetta degli attrezzi" che si trasmette di generazione in generazione, il secondo è più un esempio umano, di comportamento». «In Debenedetti c’era un unisono tra essere e fare» concorda Silvio Perrella. Che aggiunge: «Francesco Bruni è l’unico maestro in senso tecnico che abbia avuto. Per il resto la parola maestro mi lascia indifferente. Mi interessa come si trasmette l’esperienza. Berardinelli, per esempio, non ha mai voluto essere maestro, eppure ha sempre tenuto aperto la possibilità di un colloquio. Io ho cercato persone con cui confrontarmi, sono andato là dove mi sembrava che ci fosse qualcosa di più della bottega dell’artigiano. Anzi, a volte il rapporto con persone che non hanno scritto niente è stato altrettanto importante. Ho avuto maestri che sono miei amici, come Raffaele La Capria, una specie di fratello maggiore. Continuo a considerare un maestro Cesare Garboli, con cui pure ebbi una lite violentissima. Nel suo caso la persona è venuta prima del critico. Ricordo che venne a Napoli con Natalia Ginzburg a presentare un libro di Giulio Einaudi e lo smontò. In lui ho visto qualcuno che mi apriva una strada e continuo a vederlo nonostante quella rottura». Né Garboli né La Capria sono dei maestri per Cortellessa. «Garboli è stato pernicioso per la critica, proprio perché la persona era più importante di quello che scriveva. Uno che dedica tre pagine a Gadda e trenta a Soldati, con il risultato che adesso ci saranno tre Meridiani dedicati a Soldati, è parziale e inaffidabile. E lui sapeva di esserlo. Il maestro deve stare su una cattedra. E deve creare antagonismo, per poi "essere mangiato in salsa piccante" per citare il Pasolini di Uccellacci uccellini». Trevi preferisce parlare di plagio, «un meccanismo potentissimo che a un certo punto cambia strada e va dall’allievo al maestro. Oggi ci sono maestri che vengono a sapere dai ragazzini la grandezza di Sebald». Per Trevi quando si parla di ideologia si pensa sempre a quella marxista e la si connota negativamente. «Per me un maestro era Elémire Zolla che non aveva una cattedra, ma semmai un tavolino da seduta spiritica. Zolla aveva un anticomunismo infantile, ma un sistema di pensiero forte. Da un certo punto di vista è stato anche meglio di Fortini». Finito il tempo dei maestri sembra essere cominciato quello degli amici. «Nella migliore delle ipotesi sono consorterie amicali, persone che si stimano e sentono di avere se non un progetto, delle idee in comune - dice Cortellessa -. Nella peggiore sono veri e propri gruppi di pressione basati sullo scambio di favori, sulla pura convenienza. L’ideologia è anche un sistema di veti e di vincoli che ti dice che tu non puoi stringere la mano a chiunque. Oggi nessuno parla male di nulla, lo spirito dell’utile è l’unica cosa che tiene insieme persone agli antipodi. A me pare sorprendente che Antonio Scurati, con le posizioni che esprime, inviti nel suo festival milanese Pietrangelo Buttafuoco. Se metti insieme Baricco, Buttafuoco e Piperno è difficile dire che è una comunanza di poetica. E il sospetto che ci sia qualcos’altro è legittimo».
«Il critico come intruso» è il titolo del saggio curato da Emanuele Zinato (Le Lettere, pagg.248, 19,50) Ricostruisce la biografia intellettuale di Alfonso Berardinelli, mettendo in discussione i «mostri sacri» e le scuole letterarie del Novecento
«Corriere della sera» del 14 maggio 2007
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