04 luglio 2007

All’inizio ci fu la «rivoluzione tradita»

Dopo gli interventi di Galli della Loggia e Galasso sulle origini del terrorismo
di Giovanni Belardelli
Un mito che alimenta ancora oggi la violenza politica
Perché in Italia sopravvive ancora oggi, sia pure in forme decisamente minoritarie, un terrorismo rosso? E perché questo terrorismo gode ancora di qualche simpatia in certe frange della sinistra cosiddetta antagonista, come hanno mostrato le celebrazioni milanesi del 25 aprile? Era da questo duplice interrogativo che muoveva Galli della Loggia nell’editoriale che ha suscitato, due giorni fa, le obiezioni di Giuseppe Galasso. A sua volta l’articolo di Galasso, pur contenendo non poche osservazioni convincenti, mi pare soffrisse del limite di ignorare del tutto i drammatici interrogativi che ho richiamato. Proviamo dunque a ripartire da questi interrogativi, e dalle ragioni per le quali la violenza politica, non soltanto dunque il terrorismo rosso, ha avuto nella storia italiana una notevole durata e un notevole radicamento. Anzitutto, lascerei da parte il Risorgimento, poiché il processo di unificazione italiana, oltre ad utilizzare come arma decisiva il tradizionalissimo strumento di una guerra tra Stati (i franco-piemontesi contro gli austriaci) sconfiggendo o inglobando con successo l’alternativa democratico-rivoluzionaria, fu segnato da un tasso di violenza politica assai inferiore a quello da cui nacquero alcune grandi democrazie moderne, come la Francia o l’Inghilterra. Su questo Galasso ha ragione. Anche se il punto davvero rilevante non è - o non è soltanto - che lo Stato italiano sia nato senza tagliare la testa ad alcun re e senza bisogno di una sanguinosa rivoluzione; ciò che caratterizza la nostra storia, ed ha direttamente a che fare con il problema in discussione, è soprattutto la successiva difficoltà del nuovo assetto statal-nazionale italiano, per molto e molto tempo, a eliminare o almeno a marginalizzare la violenza politica, intesa sia come pratica effettiva di una via rivoluzionaria sia come delegittimazione radicale delle istituzioni politiche, messa in atto da forze e partiti antisistema (con qualche analogia dunque, da questo punto di vista, con le vicende francesi). Per certi versi, la stessa reciproca delegittimazione che in Italia ha segnato, negli ultimi anni, i rapporti tra centrodestra e centrosinistra - per la quale si è parlato non a caso di «guerra civile fredda» - è stata l’ultima manifestazione (ormai limitata in gran parte, per fortuna, al piano linguistico) di quell’antica difficoltà a eliminare la violenza dall’arena politica. Dopo il 1860 furono gli stessi mazziniani a contribuire alla difficoltà di cui si sta dicendo, alimentando il mito di un Risorgimento come rivoluzione tradita o interrotta che l’iniziativa popolare doveva riprendere e condurre fino in fondo (un paradigma utilizzato poi altre volte, fino alla Resistenza e alla stessa «rivoluzione» di Mani pulite). Nel 1914 la «settimana rossa», l’insurrezione scoppiata nelle Marche e in Romagna, era capeggiata dal socialista rivoluzionario Mussolini, dall’anarchico Errico Malatesta ma anche dall’allora repubblicano Pietro Nenni, i quali impersonavano le principali tradizioni sovversive del Paese (compresa, potremmo dire, quella fascista che pure doveva ancora nascere). E mi pare innegabile che, come ha osservato Galli della Loggia, appunto nella varia presenza di culture rivoluzionarie vada cercata una delle principali ragioni (in senso, diciamo così, storico-strutturale) della diffusione della violenza politica nella storia italiana dell’ultimo secolo, nonché della problematica accettazione di cui ha sofferto (e continua a soffrire) da noi lo Stato di diritto: che è un complesso di norme da rispettare, ma anche un insieme di corrispondenti modelli culturali che in Italia continuano a non avere troppo successo. Quanto alla Resistenza, possiamo ancora riproporne la «storia sacra» (come la definiva ironicamente Enzo Forcella), scandalizzandoci se invece la si chiama in causa nella ricerca delle ragioni storiche della violenza politica? Davvero la Resistenza non ha alimentato anch’essa, prima e dopo il 1945, il mito della rivoluzione? Davvero non vi sono testimonianze di brigatisti che ricordano l’importanza del mito della «Resistenza rossa» nel determinare la scelta terrorista dei singoli? La Resistenza, scrive Galasso, non è stata «solo» questo. Certo, ma nessuno lo sostiene, mi pare. Si sta qui parlando non della Resistenza in blocco, ma di sue componenti, di quella cospicua minoranza che cercò di unire, alla liberazione dallo straniero, l’attuazione di una resa dei conti rivoluzionaria, a volte (si pensi a quei partigiani comunisti che si misero al servizio di Tito) mostrando di avere più a cuore questa di quella. Tornando al quesito iniziale, mi pare assodato da tempo, almeno dal famoso articolo di Rossana Rossanda sull’appartenenza delle Br all’album di famiglia della sinistra comunista, quale sia stata la cultura politica che direttamente ha contributo a generare consensi attorno al terrorismo rosso. Come non meno assodato è il fatto che per la sconfitta del brigatismo fu determinante la posizione di intransigenza assunta dal Pci di Berlinguer durante il sequestro Moro. Ed è singolare che di recente l’onorevole Fassino abbia preso retrospettivamente le distanze proprio dalla scelta dura, senza compromessi, a favore dello Stato fatta dall’allora Pci nel 1978, sostenendo che forse con le Brigate rosse sarebbe stato meglio trattare per salvare la vita di Moro. Un’opinione singolare, appunto, perché è anche e forse soprattutto per questo, per lo strappo sancito a suo tempo dalla linea della fermezza, che oggi la consistenza del terrorismo brigatista appare incomparabile con quella di trent’anni fa.
Nel suo fondo sul «Corriere» del 27 aprile, Ernesto Galli della Loggia ha attaccato le culture rivoluzionarie cresciute nel nostro Paese dal Risorgimento in poi A suo avviso esse sono all’origine delle tendenze all’illegalità e all’esaltazione della violenza tuttora radicate in Italia Domenica 29 aprile è intervenuto sull’argomento Giuseppe Galasso, che si è dichiarato in netto disaccordo con la tesi sostenuta da Galli della Loggia Oggi prende la parola sulla questione un altro storico: Giovanni Belardelli
«Corriere della sera» del 1 maggio 2007

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