L’economista Walter Santagata: «Serve più sinergia fra creatività e mercato»
di Leonardo Servadio
«Sviluppo e benessere favoriscono il genio artistico e intellettuale, ma sia lo Stato che i privati devono aver maggiore cura dell'esistente e promuovere il nuovo»
La cultura è l'oro nero dell'Italia: ne abbiamo giacimenti immensi che, se opportunamente valorizzati, creano ricchezza. Il fatto è risaputo: i nostri antenati sono stati grandi artisti. Ma Walter Santagata non si accontenta, sostiene che sia necessario non solo occuparsi del patrimonio esistente, ma anche creare nuovi prodotti, e con tutte le tecnologie possibili, dal cinema al design industriale, alla moda. Economia e cultura vano assieme? «Non v'è dubbio. Basti pensare alla Firenze dei Medici… E oggi il discorso non è diverso».
Santagata da oltre venti anni si occupa del rapporto tra economia e cultura, il suo primo studio sull'argomento è stato realizzato per la Fondazione Agnelli alla fine degli anni Ottanta, successivamente all'Universtà di Torino ha aperto la cattedra di Economia dei beni e attività culturali: «ricordo lo sconcerto del mondo accademico di allora, nel vedere associati due termini che parevano insanabilmente contrapposti». Ma le cose stanno cambiando. È esplicito il titolo del suo più recente volume, La fabbrica della cultura. Ritrovare la creatività per aiutare lo sviluppo (il Mulino, euro 10, pagine 140). Vi si sostiene, appunto, che il modello della sola conservazione non funziona: «attrae turisti, non artisti, imprenditori cultuali e produttori di conoscenza… La prima priorità invece è la produzione di cultura. Essa richiede un grande programma politico di ridefinizione degli incentivi individuali e collettivi di intellettuali, artisti, operatori pubblici e imprenditori».
Concretamente che occorre fare?
«Auspico l'istituzione di una Direzione che abbia questo obiettivo in seno al Ministero, con i suoi agganci sul territorio tramite le soprintendenze. Qualcosa che svolga funzioni simili a quelle della "film commission" istituita a Torino e in altre città».
Ma il modello non sarà il Minculpop…
«Oggi all'estero non mancano esempi di organismi simili. In Francia vi sono commissioni dedite alla prom ozione culturale, e in Inghilterra sono ancora più avanti, con una struttura ministeriale ad hoc che lavora in stretto contatto col Parlamento. In Italia bisogna anzitutto prendere coscienza della situazione esistente: perché la cultura non è solo arte e letteratura, vi sono molte forme espressive nuove. Noi siamo forti nel design: dobbiamo rendercene conto, come hanno fatto in Francia, dove mi hanno incaricato di svolgere un'indagine conoscitiva sullo stato e sull'evoluzione dei grandi produttori di moda. Ma qui da noi sinora nessuno se ne è occupato, per quanto questo settore produca cultura e abbia fatturati non indifferenti. Abbiamo poi la cultura materiale diffusa nel territorio, con tutte le sue particolarità locali: prodotti alimentari, pelletteria, tessili… delle ceramiche toscane ai violini di Cremona…».
Negli Usa sono le fondazioni private a promuovere queste attività…
«Sì e no. Se si guarda il bilancio del Moma di New York (il Museo d'arte moderna, ndr) si scopre che per un 20-30% è finanziato dalla città. La mano pubblica legittimamente sostiene la produzione culturale. Questa attiva una circuitazione di idee e di altre attività che giovano al benessere globale del paese. E bisogna tenere il passo delle nuove tecnologie. Oggi negli Usa o in Corea producono film in digitale, mi sembra che in Italia questo fenomeno sia quasi inesistente».
Si dice che la cultura sia espressione di un'economia forte, com'era quella della Firenze medicea o quella degli Usa attuali. È proprio così?
«Certamente un'economia forte ha maggiori risorse da investire per la cultura. Ma avviene anche il reciproco: lo sviluppo della cultura attiva la capacità creativa, il che ha riflessi positivi per la situazione economica di un paese. Perché alla base di tutto sta la creatività, e questa è stimolata dalla circolazione di idee…».
Gli intellettuali contrappongono spesso quantità e qualità. Se a una mostra d'arte vanno migliaia di visitatori, questa appare un fenomeno di massa e viene svalutato…
«Nel corso di un anno, lo Stato incassa un centinaio di milioni di euro dai biglietti dei musei: è poca cosa. Si può supporre che se l'acceso fosse gratuito aumenterebbe il numero di visitatori. In Inghilterra nel '92 hanno reso libero l'accesso ai musei e nei primi 5 anni il numero di visitatori è aumentato di 30 milioni. Questo crea un circuito virtuoso: quanto maggiore il numero di coloro che si avvicinano alla cultura, tanto maggiore il numero di chi ne diventa consumatore abituale. Con l'aumento della conoscenza, migliora la capacità di critica e di scelta, il che porta a migliorare la qualità dell'offerta. La cultura ha sempre un effetto educativo. Inoltre genera nuove energie perché stimola la creatività. È questa la risorsa primaria: inesauribile e sempre rinnovabile».
Santagata da oltre venti anni si occupa del rapporto tra economia e cultura, il suo primo studio sull'argomento è stato realizzato per la Fondazione Agnelli alla fine degli anni Ottanta, successivamente all'Universtà di Torino ha aperto la cattedra di Economia dei beni e attività culturali: «ricordo lo sconcerto del mondo accademico di allora, nel vedere associati due termini che parevano insanabilmente contrapposti». Ma le cose stanno cambiando. È esplicito il titolo del suo più recente volume, La fabbrica della cultura. Ritrovare la creatività per aiutare lo sviluppo (il Mulino, euro 10, pagine 140). Vi si sostiene, appunto, che il modello della sola conservazione non funziona: «attrae turisti, non artisti, imprenditori cultuali e produttori di conoscenza… La prima priorità invece è la produzione di cultura. Essa richiede un grande programma politico di ridefinizione degli incentivi individuali e collettivi di intellettuali, artisti, operatori pubblici e imprenditori».
Concretamente che occorre fare?
«Auspico l'istituzione di una Direzione che abbia questo obiettivo in seno al Ministero, con i suoi agganci sul territorio tramite le soprintendenze. Qualcosa che svolga funzioni simili a quelle della "film commission" istituita a Torino e in altre città».
Ma il modello non sarà il Minculpop…
«Oggi all'estero non mancano esempi di organismi simili. In Francia vi sono commissioni dedite alla prom ozione culturale, e in Inghilterra sono ancora più avanti, con una struttura ministeriale ad hoc che lavora in stretto contatto col Parlamento. In Italia bisogna anzitutto prendere coscienza della situazione esistente: perché la cultura non è solo arte e letteratura, vi sono molte forme espressive nuove. Noi siamo forti nel design: dobbiamo rendercene conto, come hanno fatto in Francia, dove mi hanno incaricato di svolgere un'indagine conoscitiva sullo stato e sull'evoluzione dei grandi produttori di moda. Ma qui da noi sinora nessuno se ne è occupato, per quanto questo settore produca cultura e abbia fatturati non indifferenti. Abbiamo poi la cultura materiale diffusa nel territorio, con tutte le sue particolarità locali: prodotti alimentari, pelletteria, tessili… delle ceramiche toscane ai violini di Cremona…».
Negli Usa sono le fondazioni private a promuovere queste attività…
«Sì e no. Se si guarda il bilancio del Moma di New York (il Museo d'arte moderna, ndr) si scopre che per un 20-30% è finanziato dalla città. La mano pubblica legittimamente sostiene la produzione culturale. Questa attiva una circuitazione di idee e di altre attività che giovano al benessere globale del paese. E bisogna tenere il passo delle nuove tecnologie. Oggi negli Usa o in Corea producono film in digitale, mi sembra che in Italia questo fenomeno sia quasi inesistente».
Si dice che la cultura sia espressione di un'economia forte, com'era quella della Firenze medicea o quella degli Usa attuali. È proprio così?
«Certamente un'economia forte ha maggiori risorse da investire per la cultura. Ma avviene anche il reciproco: lo sviluppo della cultura attiva la capacità creativa, il che ha riflessi positivi per la situazione economica di un paese. Perché alla base di tutto sta la creatività, e questa è stimolata dalla circolazione di idee…».
Gli intellettuali contrappongono spesso quantità e qualità. Se a una mostra d'arte vanno migliaia di visitatori, questa appare un fenomeno di massa e viene svalutato…
«Nel corso di un anno, lo Stato incassa un centinaio di milioni di euro dai biglietti dei musei: è poca cosa. Si può supporre che se l'acceso fosse gratuito aumenterebbe il numero di visitatori. In Inghilterra nel '92 hanno reso libero l'accesso ai musei e nei primi 5 anni il numero di visitatori è aumentato di 30 milioni. Questo crea un circuito virtuoso: quanto maggiore il numero di coloro che si avvicinano alla cultura, tanto maggiore il numero di chi ne diventa consumatore abituale. Con l'aumento della conoscenza, migliora la capacità di critica e di scelta, il che porta a migliorare la qualità dell'offerta. La cultura ha sempre un effetto educativo. Inoltre genera nuove energie perché stimola la creatività. È questa la risorsa primaria: inesauribile e sempre rinnovabile».
«Avvenire» del 18 maggio 2007
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