Il «Memorial» di Mosca, candidato al Nobel per la pace, presenta il suo manifesto
di Dario Fertilio
«Il precedente del ‘37 spiega l’autoritarismo di Putin»
Settant’anni dopo i processi e le deportazioni di Stalin, il Grande Terrore sovietico non è finito. Fu in quell’annus horribilis 1937, quando due milioni di persone vennero arrestate senza motivo apparente per ordine del dittatore - e settecentomila assassinate - che si gettarono i semi avvelenati dell’attuale corruzione di massa, dell’autoritarismo, del conformismo russo. Allora, con la pratica diffusa del tradimento e della delazione, accompagnata dal disprezzo per la giustizia indipendente, dallo svuotamento delle istituzioni democratiche e dalla persecuzione dei dissidenti, entrarono in incubazione i mali della Russia d’oggi. E non è tutto, un’ombra grava anche sul futuro: il Grande Terrore potrebbe lasciarci in eredità un regalo avvelenato, l’ondata di violenza e nazionalismo esasperato alla sovietica, di cui abbiamo avuto un assaggio proprio in questi giorni, con il ricorso alla repressione, anche brutale, di qualsiasi forma di dissenso. Questo quadro fosco, a tratti apocalittico, non è il frutto dell’analisi solitaria di un cremlinologo, né il grido di dolore di un ex recluso nei gulag. È invece la sintesi del documento con il quale l’associazione «Memorial» di Mosca si autopresenta quest’anno alla giuria di Oslo, dopo essere stata candidata al Nobel per la pace. Per l’occasione, l’équipe degli studiosi espone dunque il proprio pensiero attraverso un manifesto, una specie di biglietto da visita rivolto al pubblico mondiale: anche un referto sullo stato di salute della Russia d’oggi, fondato su quella di ieri. Il documento è giunto a noi tramite Memorial Italia, la sponda italiana dell’associazione moscovita, di cui uno dei maggiori rappresentanti è Aleksandr Julevic Daniel (figlio del celebre dissidente negli anni Sessanta). Lo stesso Daniel è autore del saggio sullo stato dei diritti umani nella Federazione russa all’interno di un’opera colossale che viene pubblicata adesso dalla Utet sotto la direzione di Marcello Flores: Diritti umani, cultura dei diritti e dignità della persona nell’epoca della globalizzazione. Una ricostruzione agghiacciante, quella di Memorial, e una denuncia tutta rivolta all’oggi. Il «Trentasette» significò, secondo i responsabili di Memorial, «dimensioni gigantesche delle repressioni», «incredibile crudeltà delle condanne», «pianificazione senza precedenti delle "operazioni speciali" del terrore». La sua caratteristica fu l’apparenza casuale, quasi «mistica» degli arresti, che favorì la nascita di leggende nere e involontarie disinformazioni, come quella secondo la quale sarebbero stati proprio i vecchi bolscevichi e i vertici dello Stato le principali vittime della repressione. Al contrario, «la stragrande maggioranza degli arrestati e dei fucilati erano semplici cittadini sovietici, non iscritti al partito e non appartenenti ad alcuna élite». Furono colpiti attraverso «false incriminazioni» che ricordavano da vicino «le modalità del processo dell’Inquisizione medievale», in cui mancava la difesa e si unificavano di fatto «i ruoli di inquirente, accusatore, giudice e carnefice». Per funzionare, il sistema richiedeva l’uso della «menzogna ufficiale sistematica»: classico esempio ne fu la fantomatica definizione di «lager senza diritto di corrispondenza», che serviva semplicemente a mascherare la realtà delle esecuzioni di massa. Uno degli aspetti più terribili del Grande Terrore fu certo il «pensiero doppio», cioè una specie di schizofrenia psicologica imposta a tutti, allo scopo di conciliare verità private e pubbliche menzogne propagandistiche. Ma ancora più abietto, se possibile, fu l’uso di colpire i cosiddetti CSIR, una sigla che stava ad indicare i «membri della famiglia di un traditore della Patria». Si ponevano così le basi del razzismo ideologico comunista (che avrebbe trovato più vaste applicazioni nel maoismo cinese): considerare colpevoli, o almeno sospetti e meritevoli di reclusione in un lager, mogli e figli, o addirittura nipoti e discendenti di una famiglia borghese, aristocratica, decadente, degenerata, in una sola espressione «nemica del popolo». Ancora oggi, secondo l’analisi di Memorial, «a distanza di settant’anni negli stereotipi della vita sociale e della politica statale della Russia e degli altri Paesi sorti sulle rovine dell’Urss si può chiaramente distinguere l’influenza esiziale» del Grande Terrore. È una deformazione permanente della psicologia individuale che trova oggi la sua incarnazione nell’Homo Post-sovieticus alla Putin. Per combatterla, Memorial propone quella che potremmo chiamare una «campagna della memoria». Benché l’autoassoluzione collettiva, e il risorgere dei fantasmi autoritari, siano oggi le vere linee di tendenza verso cui si muove la Russia. Ma chi non è in grado di affrontare il proprio passato, si sa, è condannato a ripeterlo.
L’associazione: primo presidente di Memorial è stato Andrej Sacharov, Nobel per la pace nel ‘75. M. Ja. Gefter, storico e filosofo, è stato uno degli autori dei «Principi morali di Memorial»; Sergej Kovalev, biologo, attivista dissidente, redattore della «Cronaca degli avvenimenti correnti», è dal 1992 co-presidente. Arsenij Roginskij, storico e letterato, è presidente dal 1998
«Corriere della Sera» del 29 maggio 2007
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