Un saggio-ritratto mette in discussione i «mostri sacri» e le scuole letterarie del Novecento
Di Paolo Di Stefano
«Tutti i miei no dal ‘68 a Fortini»
C’erano una volta i maestri. Oggi sono rari sia l’esercizio di ammirazione dei potenziali discepoli sia l’assiduità del magistero da parte di eventuali fratelli maggiori. Il libro su Alfonso Berardinelli, Il critico come intruso (Le Lettere, pagg. 248, 19.50), a cura di Emanuele Zinato, ce lo ricorda opportunamente. È un libro pieno di sollecitazioni e di materiali: la biografia intellettuale di Berardinelli ricostruita da Zinato (già ottimo curatore delle opere di Paolo Volponi), una lunga intervista-confessione al critico, una antologia di saggi dello stesso Berardinelli. Il titolo la dice lunga sulla posizione di marginalità (se non di intenzionale estraneità) occupata da Berardinelli nella critica italiana, perché illustra bene quanto il mantenersi ai margini possa significare libertà intellettuale e cioè quanto l’autosottrazione sistematica, forse più caratteriale che programmaticamente perseguita, alle corporazioni e alle etichette possa potenziare l’energia polemica. Il desiderio di rinunciare a qualunque tipo di allineamento (culturale, politico, persino aziendale: il rifiuto prima dell’università e poi dell’editoria), appunto, è il filo rosso che percorre la biografia di Berardinelli. L’adesione al ‘68 e il successivo distacco per non dire pentimento: «Quando anni dopo scoprii che all’Università tutti erano comunisti pur essendo figli della borghesia fui sorpreso. Mi sembrò falso (...). Il mio ‘68 è stato infelice anche per questo. Non c’era un leader che mi piacesse e di cui mi fidassi». Ma il momento più sofferto (e forse più produttivo per lui) di questa tenace tentazione centrifuga si lega al nome di un maestro: Franco Fortini, la stretta amicizia e poi la frattura, su cui Zinato, giustamente, insiste per mettere a fuoco un nodo del percorso di Berardinelli. Il quale, trentenne, nel ‘73, dedica a Fortini una monografia e comincia a collaborare con «Quaderni piacentini», il laboratorio polemico della sinistra alternativa cui Fortini aveva aderito agendo, volente o nolente, come uno dei «guru» più ascoltati dalle generazioni più giovani (non solo Berardinelli ma Goffredo Fofi, Grazia Cherchi, Piergiorgio Bellocchio). Ora Berardinelli ripercorre lucidamente quel difficile rapporto. Lo avvicinarono a Fortini alcuni punti di vista sullo stato della cultura italiana: per esempio, il rifiuto di ogni ambizione scientifica della critica letteraria in tempi di strutturalismo trionfante, ma anche la presa di distanza polemica rispetto al «progressismo parricida e neoavanguardista». Zinato ricorda che fu Fortini a polemizzare fin dai primi anni Sessanta con la convinzione vittoriniana secondo cui la letteratura procedeva per fasi progressive di «autosuperamento formale». Ma Fortini, specie nei primi anni Sessanta, era anche maestro di «mediazione ideologica» attraverso la forma del saggio «acuminato», polemico, comunicativo, «dialettico tra saperi scientifici e sapere comune, astrazione teorica ed esperienza». Viceversa, quel che Berardinelli non sopporta è il primato della politica su tutto, letteratura compresa. E parlando del clima degli anni Sessanta, ricorda: «Avere a che fare seriamente con la letteratura sembrava una specie di tradimento, di vizio morale, di imperdonabile debolezza psicologica (...)». E non senza ironia prosegue: «Lo stesso Fortini, che pure faceva del tutto per essere e per mostrarsi consapevole dello stato di emergenza e della situazione di lotta internazionale contro l’Imperialismo e il Capitalismo, veniva accusato di non essere un vero e coerente marxista rivoluzionario, ma tutt’al più un letterato piccolo-borghese tormentosamente (e inutilmente) scisso fra culto della Cultura e coscienza politica (...)». Alla fine però ciò che, negli anni Settanta avanzati, Berardinelli imputerà al suo maestro Fortini sarà esattamente il contrario: «Nonostante fosse un iperletterato, Fortini accettava che la letteratura venisse giudicata attraverso il marxismo mentre la letteratura non poteva giudicare il marxismo». È, secondo Berardinelli, quella stessa «diffidenza per la letteratura» che esprimerebbero i critici freudiani (Francesco Orlando) per il primato che assegnano, nei confronti del testo letterario, alla psicoanalisi. Marxismo e freudismo sono, secondo Berardinelli, «culture molto limitate» rispetto alla letteratura e non meritano di soverchiarla. Insomma, lo stesso Fortini che censurava le letture ortodosse o scientiste degli altri e che veniva rimproverato di insufficiente fede marxista, finiva per essere, per Berardinelli, un critico ideologico. Stesso discorso per altre «ortodossie», come quella strutturalista: la polemica contro la scuola di Cesare Segre, contro il metodo e la terminologia semiotica e le griglie didattiche che ne sono derivate. Salvo poi ribaltare il tavolo considerando che oggi «il problema non sono i metodi», anzi «se ne parla persino troppo poco». «Circola un’idea di critico-scrittore che sta diventando caricaturale - dice Berardinelli -. Tutti vogliono essere creativi e sentirsi artisti (...). Quando ho visto, alla fine degli anni Ottanta, che il problema non erano più gli strutturalisti e i logotecnocrati ma i critici "creativi", allora mi sono messo a prendere di mira Pietro Citati (che vorrebbe riscrivere enfaticamente tutti i classici) e a difendere Cesare Garboli, che invece è stato inflessibile nella fedeltà ai propri limiti e nel parlare esclusivamente degli autori che ama, conosce e capisce: l’opposto del critico universale e del critico accademico». Su questa strada, è ovvio che Berardinelli alle «auscultazioni» di Contini fedeli alla materialità del testo preferisce nettamente l’antispecialismo di Giacomo Debenedetti, lui sì modello mai ripudiato di critico-artista: «non è mai un ideologo che giudichi la letteratura da dimensioni culturali esterne alla letteratura». Né il «sapore metallico» degli iperspecialisti e dei marxisti, né la «consistenza cremosa» di Citati. Il «critico senza mestiere» Berardinelli non poteva che imboccare decisamente la strada che già aveva individuato sin dagli inizi: quella di un individualismo scontroso e un po’rompiscatole (l’esperienza, con Piergiorgio Bellocchio, della rivista a due «Diario»). In un intenso autoritratto dei cinquant’anni, posta tra i testi che compongono le sue «carte d’identità», Berardinelli individua un tratto peculiare dello scrittore moderno nel cominciare sempre da un «no» anche per dire «sì». È questa la sua natura di eterno intruso che osserva tutti ma non sta con nessuno. A parte, ogni tanto, i pochi intrusi come lui.
«Corriere della sera» del 12 maggio 2007
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