di Eugenio Di Rienzo
Poca attenzione è stata finora concessa al tentativo, avvenuto immediatamente prima della Liberazione, di costruire a tavolino un’organica cultura antifascista, a partire da un patchwork, in cui trovavano posto Gobetti, Gramsci, i fratelli Rosselli, Giaime Pintor, Leone Ginzburg, e magari Salvemini e Salvatorelli, non per le loro idee, ma per le biografie di «uomini di cultura che erano e sono di fede diversa, ma d’una varia educazione e missione, e che si sono incontrati nella lotta politica, nella guerra civile e ideale contro uno stesso nemico sulla comune trincea del popolo italiano». Parole, queste, che apparivano nell’aprile del 1945, sulle pagine di una rivista fiancheggiatrice del Pci, nel momento in cui si registrava un fenomeno esattamente contrario, e cioè il più ingente afflusso di intellettuali di formazione fascista nel partito.
Questo paradosso rivelava la volontà del «partito nuovo» di Togliatti di realizzare una totalitaria «egemonia» sul mondo dei colti, che, al di là del loro inserimento nelle strutture dello Stato, fossero in grado di rappresentare la supremazia di un gruppo come «dominio» e come «direzione intellettuale e morale». Nel maggio del 1947, il segretario del Pci esplicitava questa strategia, sostenendo che ognuno era «libero» di apportare il proprio contributo per la costruzione del «grande partito» dei lavoratori. Sulla base di questa assicurazione, molti uomini di cultura transitarono nel Pci. Furono essi, intellettuali del nord, divisi tra materialismo storico e neopositivismo, allievi di Giovanni Gentile che ritrovavano lo statalismo del loro maestro nell’ideologia stalinista, crociani di sinistra e salveminiani, affardellati dal bagaglio del meridionalismo, cattolici che pretendevano di coniugare comunismo e pauperismo evangelico.
Così concepita l’operazione di reclutamento ebbe largo successo e toccò il culmine alla vigilia delle elezioni del 1948, quando anche molti liberali sostennero attivamente il Pci nel timore che una vittoria dei cattolici potesse trasformare l’Italia in un’altra «repubblica di Salazar, dominata dai preti». Lo storico Delio Cantimori motivava, allora, la sua conversione marxista, sostenendo la necessità di una rivoluzione comunista che, come quella puritana in Inghilterra e quella giacobina in Francia, distruggesse il potere della Chiesa. Anche il letterato Luigi Russo comunicava a Croce il suo arruolamento nel partito di Togliatti. A quell’annuncio il filosofo replicava, sostenendo che «quell’atto non era difendibile con nessuna argomentazione, e che il migliore partito da adottare da voi sia di smettere le polemiche della politica».
In quello stesso periodo, il Pci iniziava a edificare il suo impero giornalistico, che sarebbe stato composto, alla metà degli anni Cinquanta, di numerosi quotidiani (dal Paese di Roma all’Ora di Palermo). Iniziava poi l’infiltrazione nelle strutture scolastiche e universitarie, nel cinema e nella carta stampata «indipendente», realizzato col contributo dei cosiddetti «compagni di strada», provenienti dal Partito d’Azione, non organici al marxismo, ma sedotti dall’idea di poter continuare la loro battaglia nelle file del Pci, anche quando, dopo il 1956, molti intellettuali abbandonarono la forza politica che aveva giustificato i «massacratori dell’Ungheria». Dopo la crisi del governo Parri del novembre 1945 e la dissoluzione del loro partito, gli uomini del Pda accusarono le forze moderate di avere realizzato un «colpo di Stato», che avrebbe aperto la strada al ritorno del «fascismo». Secondo la testimonianza di Carlo Levi, da quel momento su tutta l’Italia cessava di soffiare il corroborante «vento del nord» e tornava a spirare lo scirocco. Roma ridiveniva Bisanzio, la capitale della malavita politica. I puri dell’azionismo si ritirarono allora nell’ombra. Ma ad attenderli vi erano posti di responsabilità in ogni ganglio della vita culturale, a partire dalle università. Le redazioni delle case editrici, delle riviste, dei giornali si spalancarano al loro incedere. E non hanno mai smesso di farlo, fino ad oggi, per loro e per i loro eredi.
Questo paradosso rivelava la volontà del «partito nuovo» di Togliatti di realizzare una totalitaria «egemonia» sul mondo dei colti, che, al di là del loro inserimento nelle strutture dello Stato, fossero in grado di rappresentare la supremazia di un gruppo come «dominio» e come «direzione intellettuale e morale». Nel maggio del 1947, il segretario del Pci esplicitava questa strategia, sostenendo che ognuno era «libero» di apportare il proprio contributo per la costruzione del «grande partito» dei lavoratori. Sulla base di questa assicurazione, molti uomini di cultura transitarono nel Pci. Furono essi, intellettuali del nord, divisi tra materialismo storico e neopositivismo, allievi di Giovanni Gentile che ritrovavano lo statalismo del loro maestro nell’ideologia stalinista, crociani di sinistra e salveminiani, affardellati dal bagaglio del meridionalismo, cattolici che pretendevano di coniugare comunismo e pauperismo evangelico.
Così concepita l’operazione di reclutamento ebbe largo successo e toccò il culmine alla vigilia delle elezioni del 1948, quando anche molti liberali sostennero attivamente il Pci nel timore che una vittoria dei cattolici potesse trasformare l’Italia in un’altra «repubblica di Salazar, dominata dai preti». Lo storico Delio Cantimori motivava, allora, la sua conversione marxista, sostenendo la necessità di una rivoluzione comunista che, come quella puritana in Inghilterra e quella giacobina in Francia, distruggesse il potere della Chiesa. Anche il letterato Luigi Russo comunicava a Croce il suo arruolamento nel partito di Togliatti. A quell’annuncio il filosofo replicava, sostenendo che «quell’atto non era difendibile con nessuna argomentazione, e che il migliore partito da adottare da voi sia di smettere le polemiche della politica».
In quello stesso periodo, il Pci iniziava a edificare il suo impero giornalistico, che sarebbe stato composto, alla metà degli anni Cinquanta, di numerosi quotidiani (dal Paese di Roma all’Ora di Palermo). Iniziava poi l’infiltrazione nelle strutture scolastiche e universitarie, nel cinema e nella carta stampata «indipendente», realizzato col contributo dei cosiddetti «compagni di strada», provenienti dal Partito d’Azione, non organici al marxismo, ma sedotti dall’idea di poter continuare la loro battaglia nelle file del Pci, anche quando, dopo il 1956, molti intellettuali abbandonarono la forza politica che aveva giustificato i «massacratori dell’Ungheria». Dopo la crisi del governo Parri del novembre 1945 e la dissoluzione del loro partito, gli uomini del Pda accusarono le forze moderate di avere realizzato un «colpo di Stato», che avrebbe aperto la strada al ritorno del «fascismo». Secondo la testimonianza di Carlo Levi, da quel momento su tutta l’Italia cessava di soffiare il corroborante «vento del nord» e tornava a spirare lo scirocco. Roma ridiveniva Bisanzio, la capitale della malavita politica. I puri dell’azionismo si ritirarono allora nell’ombra. Ma ad attenderli vi erano posti di responsabilità in ogni ganglio della vita culturale, a partire dalle università. Le redazioni delle case editrici, delle riviste, dei giornali si spalancarano al loro incedere. E non hanno mai smesso di farlo, fino ad oggi, per loro e per i loro eredi.
«Il Giornale» del 3 luglio 2007
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