Il celebre scrittore ceco rielabora la sua teoria sull’esaurirsi della narrazione tradizionale
di Stefano Paolo
«Con García Márquez e Rushdie si è concluso il tempo dell’epica»
Vi ricordate che cosa diceva Milan Kundera nell’Arte del romanzo? Diceva che «lo spirito del romanzo è lo spirito di complessità». Ogni romanzo - sosteneva Kundera - dice al suo lettore: «Le cose sono molto più complicate di quanto tu pensi». E’questa l’«eterna verità» di un genere letterario che oggi, in un mondo che sembra non avere più nulla di «romanzesco», sembra fatto apposta per andare contro lo spirito del nostro tempo. Su questa via Kundera concludeva con un paradosso: se il romanzo vuole sopravvivere a se stesso, se vuole «progredire», «può farlo solo andando contro il progresso del mondo». Ora che sono usciti, su Le Monde (venerdì scorso), tre suoi scritti inediti, il paradosso dello scrittore ceco è ancora più comprensibile. Si tratta di tre brevi saggi a proposito di Cent’anni di solitudine, de L’ultimo sospiro del Moro di Salman Rushdie e de L’idiota di Dostoevskij. Ma in questa chiave soprattutto i primi due sono illuminanti, perché ci parlano di romanzi contemporanei. Il capolavoro di García Márquez rappresenta, secondo Kundera, «l’apoteosi dell’arte del romanzo», ma al tempo stesso è «un grande addio rivolto all’era del romanzo». Rivolgendo lo sguardo a ritroso, Kundera osserva con un certo stupore come i protagonisti dei grandi romanzi del passato siano in genere «infertili»: né Pantagruel né don Chisciotte, né Tom Jones, né Werther, né gran parte degli eroi di Balzac e di Dostoevskij, né quelli di Stendhal, né quelli di Musil, né il Marcel di Proust si preoccupano di lasciare un segno di sé nel futuro attraverso la prole. «È lo spirito dell’arte del romanzo (o il suo subcosciente) che ha ripugnanza della procreazione». Essendo una creatura della modernità, il romanzo punta tutto sull’individuo: «Grazie all’arte del romanzo, l’essere umano si installa in Europa come individuo Isola un individuo, rischiara tutta la sua biografia, le sue idee, i suoi sentimenti, lo rende insostituibile: ne fa il centro del mondo». Con Cent’anni di solitudine, viceversa, il romanzo sembra voler «uscire da questo sogno», dall’illusione che l’individuo sia «il fondamento di tutto». Non più un solo individuo, ma una pluralità di individui, «inimitabili e originali, ma ciascuno di essi non è che il bagliore fugace di un raggio di sole sull’onda del fiume». Non c’è personaggio che rimanga sulla scena dall’inizio alla fine e i nomi che portano tendono a confondere l’uno con l’altro (Arcadio José Buendia, José Arcadio, José Arcadio Secondo:, Aureliano Buendia, Aureliano Secondo). Persino la madre, Ursula, muore a 120 anni molto prima che il romanzo si concluda. «Il tempo dell’individualismo europeo non è più il loro tempo». Come spesso accade nei saggi di Kundera, la riflessione sulla letteratura si accompagna con ricordi e frammenti autobiografici. Così, leggendo il romanzo di Rushdie torna a galla l’immagine della folla legata all’immaginario socialista: la folla rivoluzionaria e festante della Primavera di Praga, opposta alla folla militare, lugubre e disciplinata dell’occupazione sovietica, la folla allineata, infine la folla soggiogata del gulag. Perché la folla? «La sovrappopolazione distingue il nostro mondo da quello dei nostri avi ( ). L’uomo perpetuamente circondato da una folla non somiglia né a Fabrizio del Dongo, né ai personaggi di Proust». L’uomo che fa parte di questa folla perpetua, osserva Kundera, ha «poche possibilità epiche, poche occasioni di agire». Viviamo in un mondo senza avventura, in un mondo antiepico. E fine dell’avventura è, per Kundera, fine dell’uomo. Apocalisse. La folla di Rushdie si oppone a questa immagine: «È una folla fuori da ogni ordine, libera, terribilmente libera, attiva, intraprendente, mafiosa, cospirativa, inventiva»: una folla che conserva la propria libertà anche illegalmente, non accetta le gerarchie, non sopporta l’ordine costituito. Lo scrittore anglo-indiano sembra sfidare la fine dell’epica con un’«iperbole epica», con un’«affabulazione ipertrofica», i suoi romanzi, «inattesi, burleschi, folli», riflettono il cambiamento aggiungendo alla follia della sovrappopolazione l’ebbrezza immaginativa dello scrittore: i suoi personaggi sono «vivi, originali, pittoreschi, affascinanti; si portano dietro ricche biografie, piene di avvenimenti, irradiano una straordinaria bellezza epica». A tal punto che, sottolinea Kundera utilizzando una efficace metafora idrica, è difficile dire fino a che punto «questo splendido geyser epico» non sia «il geyser del male». E allora ammettiamo pure l’inammissibile, incalza Kundera: «Questi fiori del male sono i fiori della libertà». Il protagonista lascia Bombay nel momento in cui la città, ai suoi piedi, è in preda all’apocalisse, posseduta dalle fiamme innescate dalla «gioiosa libertà di creare ricchezze e di distruggerle, di organizzare bande di assassini e di massacrare i nemici, la libertà di far esplodere le case e di annientare le città». È la libertà di consegnare il mondo alla sua fine. Una profezia? No, risponde Kundera, «i romanzieri non sono profeti». È solo il nostro presente. L’ultimo saggio inedito di Kundera si concentra sull’Idiota di Dostoevskij e sul suo ampio repertorio del riso: «Cosa strana, i personaggi che ridono di più non possiedono nessun senso dell’umorismo». Perché ridono, dunque? Per sovreccitazione, per angoscia, per senso del ridicolo, per non distinguersi dagli altri: «Come una spia che indossa un’uniforme straniera per non essere riconosciuta».
Un successo nato dalla «Leggerezza» Milan Kundera è nato a Brno nel ‘29. Vive e lavora in Francia. La sua fama come romanziere è legata al successo mondiale de «L’insostenibile leggerezza dell’essere» (‘84). In Italia, i suoi libri sono pubblicati da Adelphi
«Corriere della sera» del 28 maggio 2007
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