Renato Barilli interviene nella discussione aperta dal saggio-ritratto dedicato ad Alfonso Berardinelli
di Renato Barilli
Ho già dichiarato più volte la mia estrema meraviglia per il compiersi di un fatto incredibile, la generale preterizione, per non dire omissione o rimozione nei confronti di una straripante produzione narrativa verificatasi nel nostro Paese lungo gli interi anni Novanta, e per fortuna non ancora cessata. Andando indietro con la memoria, non mi pare proprio che in tutti i precedenti decenni della nostra storia sia avvenuto qualcosa di simile, almeno nell’ordine quantitativo. Basterà ricordare in proposito un’antologia messa su in tutta fretta da me e da altri volonterosi colleghi quando, per tutto il decennio passato, esistevano gli appuntamenti reggiani di Ricercare. L’avevamo chiamata Narrative invaders, tanto erano invadenti quei giovani narratori anzi, invasivi, pronti a entrare in vena. Non posso trascrivere tutti i nominativi che vi entravano, altrimenti lo spazio concessomi sarebbe occupato per intero, ma non potrò evitare di citarne alcuni di sicuro prestigio e di forte presenza, quali Ammaniti, Balestra, Brizzi, Campo, Covacich, Ferrandino, Galiazzo, Massaron, Mozzi, Nori, Nove, Piccolo, Rezza, Santacroce, Scarpa, Trevisan, Vinci, Voce, Voltolini. Ebbene, silenzio, in genere, su di loro, se non attraverso menzioni sbadate e svogliate. Si preferisce invece agitare un problema fatuo e irrilevante come la ricerca di Padri, Padrini, Maestri, con la mania di precipitarsi a nominare i «soliti noti», Vittorini, Calvino, Pasolini, o, sul versante della critica, Contini, Debenedetti, Fortini. Proposte che non dicono nulla, a questa schiera di tumultuosi discendenti, i quali pretendono assolutamente di fare da sé, o semmai muovono alla ricerca di fratelli maggiori, trovati in Tondelli o in Busi o in Benni, con possibilità di arretrare a Volponi o Arbasino o Malerba, e non molto più in là. Infatti, tratto precipuo di questa schiera è di volersi misurare molto da vicino su una realtà incombente, minacciante, aggressiva, che proprio non lascia spazio per pensose retrospezioni. Come aggirare e stendere un velo su questa ingombrante e massiccia presenza? La mia stupefazione non ha limiti nel constatare le furbe manovre cui ci si affida. Primo, rifugiarsi nella tradizionale e sempre premiante esterofilia. C’è un supplemento di uno dei nostri maggiori quotidiani che apre di regola con un paginone dedicato a qualche straniero, e uno successivo campeggia a mezzo del fascicolo. Apprezzo invece che questo giornale abbia il merito di agitare le acque, di frugare tra i nuovi valori, di porre comunque interrogativi. Seconda mossa, affrettarsi a scegliere qualche buono da portare fuori dalla mischia. Ai tempi del Gruppo 63 si salvava il solito Manganelli, gettando nel fuoco o nel cestino tutti gli altri. Oggi si salva Ammaniti, beninteso con pieno merito suo, tanto che si sussurra che gli daranno addirittura il Premio Strega, mentre sugli altri meglio tacere, fingere che non ci siano. Infine, ultima mossa, il vecchio establishment risorge per li rami, e dunque si dedichino tributi d’attenzione a Piperno e Scurati, che possono vantare qualche frequentazione di buona lega con Garboli o con Siciliano, e dunque recano una sorta di bollino di garanzia. Per parte mia, sono pronto ad allargare il consenso, e dunque ho espresso giudizi positivi anche sul loro conto, anche loro ci stanno, nell’impetuosa valanga azzurra dei nostri giorni, pronta nello stesso tempo a tingersi di rosa, visto che pure le scrittrici vi recitano una parte forte.
«Corriere della sera» del 15 maggio 2007
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