Il fiato corto dei figli è quello dei grandi, facili a rassegnarsi come a illudersi, a 40 anni, di “ricominciare”. Per un po’, almeno
di Marina Corradi
Riuscirete a restare insieme per i quarant’anni del mutuo?», viene chiesto in uno spot che passa in questi giorni in tv a una giovane coppia. Dubbio fondato e ragionevole, giacché i mutui restano anche quando i matrimoni finiscono. E finiscono, dice l’Istat in un rapporto di ieri, sempre più numerosi: in dieci anni le separazioni sono aumentate del 57 per cento, e i divorzi del 74. Oggi per 1000 matrimoni ci sono ogni anno 270 separazioni e 150 divorzi, quasi il doppio rispetto al 1995. Ci si divide, mediamente, dopo quattordici anni, e solo quest’anno sono centomila i figli "divisi".
La quasi normalità del fallimento, dunque, è il dato dei grafici dell’Istat. È quotidianità oggi il pendolarismo dei figli, pronti e puntuali sotto casa col loro zainetto la domenica mattina, quando è di turno il padre. Si pubblicano libri per spiegare che i figli dei separati possono essere assolutamente felici, e i settimanali femminili sono prodighi di consigli alle quarantenni che vogliono rifarsi una vita. Così fan tutti, è "normale". E più il dividersi diventa frequente, più si moltiplica l’attitudine a considerare questa eventualità quasi un ordinario decorso di affetti e promesse giovanili, "naturalmente" incapaci di reggere al tempo e alla fatica. Ci si prova comunque, a sposarsi. Ma la durata del mutuo impressiona di più della prospettiva di stare insieme per sempre.
Per sempre? Beh, finché ci si riesce. E quelli che hanno venticinque anni tardano sempre più, dubbiosi, a decidersi: ed è vero, il lavoro è precario e le case introvabili, ma certo attrae meno il matrimonio, se tutt’attorno se ne moltiplicano i reduci, e testimoniano che quel "per sempre" era solo un’adolescenziale illusione. Come avviene sui mercati, quando un prodotto è in crisi, se ne propongono altri, meno onerosi. Pacs o Dico paiono nascere anche in questa logica: minore impegno, e facilità di scioglimento. Patti "leggeri", qualche diritto e nessuna promessa, la nuova proposta per il tempo dei naufragi c oniugali epidemici. Pragmatico realismo: ragazzi, è meglio accontentarsi di poco. Come se a uno studente che si affanna sui libri, a un atleta che insegue un primato, gli adulti dicessero: avrai al massimo una sedia in un ufficio, o sarai riserva su una panchina di serie C. Non sperare troppo, rassegnati. È quello che tacitamente una generazione sta dicendo all’altra sul matrimonio, tra fallimenti di massa e proposte alternative. Lasciarsi, dice il mondo attorno, è l’esito normale delle cose. Ma contraddice, questa rassegnazione, la istintiva domanda dei vent’anni. A vent’anni, i ragazzi sognano e dicono ancora: «per sempre». Per poterci credere davvero avrebbero bisogno di vedere che è possibile, e che è bello, dopo grandi fatiche, a sessant’anni, aspettare insieme i nipoti. Ma mancano ogni anno di più, di queste maratone di affetti, i testimoni. Come un anello infranto fra le generazioni. Per separarsi bastano sei mesi, ma, e il mutuo? Il fiato corto dei figli è quello dei grandi, facili a rassegnarsi come a illudersi, a quarant’anni, di “ricominciare”. Per un po’, almeno. Perché è assurdo, lo sanno tutti, volere un bene che duri per sempre.
La quasi normalità del fallimento, dunque, è il dato dei grafici dell’Istat. È quotidianità oggi il pendolarismo dei figli, pronti e puntuali sotto casa col loro zainetto la domenica mattina, quando è di turno il padre. Si pubblicano libri per spiegare che i figli dei separati possono essere assolutamente felici, e i settimanali femminili sono prodighi di consigli alle quarantenni che vogliono rifarsi una vita. Così fan tutti, è "normale". E più il dividersi diventa frequente, più si moltiplica l’attitudine a considerare questa eventualità quasi un ordinario decorso di affetti e promesse giovanili, "naturalmente" incapaci di reggere al tempo e alla fatica. Ci si prova comunque, a sposarsi. Ma la durata del mutuo impressiona di più della prospettiva di stare insieme per sempre.
Per sempre? Beh, finché ci si riesce. E quelli che hanno venticinque anni tardano sempre più, dubbiosi, a decidersi: ed è vero, il lavoro è precario e le case introvabili, ma certo attrae meno il matrimonio, se tutt’attorno se ne moltiplicano i reduci, e testimoniano che quel "per sempre" era solo un’adolescenziale illusione. Come avviene sui mercati, quando un prodotto è in crisi, se ne propongono altri, meno onerosi. Pacs o Dico paiono nascere anche in questa logica: minore impegno, e facilità di scioglimento. Patti "leggeri", qualche diritto e nessuna promessa, la nuova proposta per il tempo dei naufragi c oniugali epidemici. Pragmatico realismo: ragazzi, è meglio accontentarsi di poco. Come se a uno studente che si affanna sui libri, a un atleta che insegue un primato, gli adulti dicessero: avrai al massimo una sedia in un ufficio, o sarai riserva su una panchina di serie C. Non sperare troppo, rassegnati. È quello che tacitamente una generazione sta dicendo all’altra sul matrimonio, tra fallimenti di massa e proposte alternative. Lasciarsi, dice il mondo attorno, è l’esito normale delle cose. Ma contraddice, questa rassegnazione, la istintiva domanda dei vent’anni. A vent’anni, i ragazzi sognano e dicono ancora: «per sempre». Per poterci credere davvero avrebbero bisogno di vedere che è possibile, e che è bello, dopo grandi fatiche, a sessant’anni, aspettare insieme i nipoti. Ma mancano ogni anno di più, di queste maratone di affetti, i testimoni. Come un anello infranto fra le generazioni. Per separarsi bastano sei mesi, ma, e il mutuo? Il fiato corto dei figli è quello dei grandi, facili a rassegnarsi come a illudersi, a quarant’anni, di “ricominciare”. Per un po’, almeno. Perché è assurdo, lo sanno tutti, volere un bene che duri per sempre.
«Avvenire» del 27 giugno 2007
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