A quarant’anni da «Lettera a una professoressa», la figura del sacerdote continua a dividere
di Giovanni Belardelli
L’anticipatore del Sessantotto in nome di un populismo contrario al merito
Quarant’anni fa, nel maggio 1967, compariva un libro che avrebbe agito sulla nostra scuola con gli effetti di un terremoto. Mi riferisco naturalmente a Lettera a una professoressa, il feroce atto d’accusa contro la scuola italiana scritto da don Lorenzo Milani, che aveva realizzato a Barbiana (la sperduta località del Mugello dove la curia fiorentina lo aveva relegato anni prima) un’esperienza educativa assai polemica verso il sistema d’istruzione vigente. Il libro ebbe subito un successo straordinario: secondo quel che scrisse allora L’Espresso, fu uno dei due libri di saggistica più diffusi in quell’anno (l’altro era di Herbert Marcuse). Ma la grande risonanza fu dovuta soprattutto al fatto che Lettera a una professoressa, con la sua denuncia di una «scuola di classe» che bocciava i figli dei contadini e degli operai, divenne presto uno dei testi chiave del Sessantotto italiano. Per una intera generazione di giovani, anzi, avrebbe rappresentato una di quelle letture che non si dimenticano: non è un caso, così, se pochi anni fa un congresso dei Ds si svolse sotto lo slogan I care («mi sta a cuore, mi riguarda»), che campeggiava appunto su una parete della scuola di Barbiana; né che a don Milani si sia richiamato espressamente il presidente della Camera Bertinotti nel suo discorso di insediamento o che il ministro Fioroni, appena assunto il dicastero della Pubblica istruzione, si sia recato a Barbiana. A testimoniare di un apprezzamento diffuso non soltanto a sinistra, sta il fatto che anche Berlusconi abbia ricordato di essere rimasto molto colpito da Lettera a una professoressa, un libro che a suo avviso sarebbe ancora attuale. In realtà, di una simile attualità è lecito dubitare. Infatti quel libro, grazie al suo stesso successo, favorì anche la diffusione di alcune idee deleterie che avrebbero avuto effetti negativi sulla scuola italiana: a cominciare dalla convinzione che bocciare qualcuno costituisse un atto di intollerabile discriminazione sociale, messo in opera da insegnanti che si facevano docili esecutori del volere dei «padroni», interessati ad aumentare la disponibilità di manodopera a buon mercato. Quanto ai programmi di studio, Lettera a una professoressa esprimeva a ogni pagina l’idea che quella normalmente trasmessa dalla scuola fosse una cultura di classe, come tale da respingere. Da respingere era pure ogni forma di conoscenza astratta, non legata all’esperienza di vita: per la matematica, ad esempio, nella scuola dell’obbligo non c’era motivo di andar oltre «i calcoli che ognuno deve saper fare per le necessità immediate di casa o di un lavoro qualsiasi». Poiché lo scopo della scuola doveva essere quello di favorire il riscatto sociale di chi apparteneva alle classi subalterne, ebbene era la padronanza del linguaggio a rappresentare l’elemento decisivo; ma di un linguaggio aderente all’uso quotidiano, non di quello colto e difficile dei libri di testo. Ore e ore, in questa visione dominata dall’utilità immediata del sapere e dal suo immediato legame con l’attualità, andavano dedicate alla lettura e commento del giornale, ritenendo che questo equivalesse a studiare - ha scritto un ex allievo della scuola di Barbiana - «italiano, storia, geografia, scienze... Si può far tutto con la lettura del giornale». Erano posizioni destinate a entrare nel bagaglio culturale del Sessantotto italiano e a segnare profondamente le nuove leve di insegnanti. Fu anche in virtù dell’enorme suggestione esercitata da Lettera a una professoressa che nel nostro sistema di istruzione si accreditò l’idea che la selezione per merito costituisca uno strumento per perpetuare le differenze sociali. Un’idea del tutto errata: solo una scuola capace (anche) di selezionare in base al merito può svolgere la funzione di ridurre le diseguaglianze derivanti dall’ambiente familiare e sociale di provenienza. Ma tuttavia un’idea che, diventata quasi un luogo comune, è stata all’origine di misure - come l’eliminazione degli esami di riparazione e l’introduzione di crediti formativi di fatto inesigibili - che hanno contribuito alla crisi della scuola. Per la verità, don Milani condannava la selezione soprattutto nella scuola dell’obbligo, ritenendola la causa prima dell’abbandono scolastico; ma la sua denuncia aveva toni così accorati («La scuola selettiva è un peccato contro Dio e contro gli uomini»), si accompagnava a una così aspra denuncia della discriminazione di classe, da essere recepita dalla contestazione e dal progressismo pedagogico che ne scaturì come un lasciapassare per esami di gruppo, abolizione del voto e così via. Comunque, il paradosso contenuto nella lettura sessantottina di Lettera a una professoressa è ancora più grande, poiché la pedagogia di don Milani, se effettivamente sembrava anticipare alcune idee della contestazione, ne contraddiceva altre non meno fondamentali. La scuola di Barbiana era una scuola dura, severa, che non escludeva neppure (ma credo più a parole che nella realtà) l’uso della frusta: aveva, insomma, tratti autoritari sideralmente distanti dalla mentalità e dal costume del Sessantotto. Era una scuola in cui appariva centrale la figura del maestro, che prestava all’insegnamento una dedizione assoluta e puntava a lasciare sugli alunni un’impronta indelebile (Lettera a una professoressa si presentava come un libro scritto insieme ai ragazzi, ma in realtà questi si erano limitati ad approvare ciò che il loro carismatico insegnante andava man mano scrivendo). Quanto agli orientamenti politici di don Milani, poté passare per un uomo di sinistra in virtù delle frizioni avute con le gerarchie ecclesiastiche (che a Barbiana lo avevano inviato quasi come si trattasse di un confino) o della battaglia per l’obiezione di coscienza; ma in realtà il suo populismo classista poco si lasciava interpretare secondo la distinzione tradizionale tra destra e sinistra. Era un populismo venato di una forte polemica contro gli intellettuali (in particolare contro quelli «che leggono L’Espresso»), accompagnata da un’avversione, non priva di toni qualunquistici, per tutti i partiti, che gli apparivano - di destra o di sinistra che fossero - altrettanti segmenti dell’unico grande «Partito Italiano Laureati». Ma, come si dice, i libri hanno poi il loro destino. Nel caso di Lettera a una professoressa i tempi si incaricarono di scegliere piuttosto liberamente cosa prendere e cosa scartare (anche grazie al fatto che don Milani morì appena un mese dopo la comparsa del libro). Molti, ad esempio, misero la sordina all’intensa fede religiosa di quel prete che aveva tolto il crocifisso dalla sua scuola, ma viveva con totale dedizione la propria missione di sacerdote. I più ignorarono che la scuola di Barbiana aveva comunque rappresentato un’esperienza irripetibile, legata com’era alla personalità di don Milani assai più che alle idee consegnate alla Lettera a una professoressa. Furono proprio alcune di queste idee, invece, che trovarono una diffusione larghissima, diventando una sorta di ariete per distruggere, come allora si diceva, la scuola e il sapere «di classe». Anche per questo, appare davvero fuori luogo che si continui a citare quel libro di quarant’anni fa come fosse portatore di una positiva, e ancora attuale, rivoluzione pedagogica. Ciò detto, è difficile non provare al tempo stesso un sentimento di ammirazione per la dedizione straordinaria con cui don Milani, al di là delle confuse affermazioni classiste e populiste che lo avrebbero reso famoso, seppe dedicarsi ai ragazzi di Barbiana. Una dedizione davvero assoluta, tanto da lasciar scritto, in una lettera-testamento indirizzata ai suoi allievi: «Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto».
« Corriere della Sera » del 22 maggio 2007
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