Chi nega la differenza naturale fra uomini e donne prepara una società dal pensiero unico
di Lucetta Scaraffia
Non si può non essere d’accordo sull’importanza - ribadita da Eva Cantarella e da Nicla Vassallo in risposta al mio articolo del 20 marzo - del «generare saggezza», e tutti riteniamo che generare saggezza non richiede la presenza di due sessi diversi. Ma generare bambini sì e proprio per questo l’umanità, nella sua larga maggioranza, è divisa in due generi ben distinti biologicamente. Negare questa realtà naturale non significa però generare saggezza, ma produrre ideologia: e infatti non produceva ideologia la società ateniese ricordata dalla Cantarella, che distingueva molto nettamente la generazione di esseri umani - e quindi la famiglia - dalla generazione di idee, aperta ai rapporti omosessuali. E mettere in dubbio che le coppie omosessuali possano costituire una famiglia, come fa la filosofa Agacinski da me citata, non significa certo negare agli omosessuali i diritti e le libertà di cui hanno pienamente ragione di godere in quanto individui. Ma il punto fondamentale del mio pensiero è quello individuato dalla Vassallo: «Rivalutare le proprietà e le mansioni di un certo tipo di donna». In altre parole, chiedere che l’uguaglianza femminile si affermi come rivalutazione della differenza - che comprende il lavoro di cura, così mortificato nelle nostre società ma così necessario - piuttosto che come adeguamento al modello maschile. Certo che le donne sono diverse fra loro (e non tutte sono esempi di dedizione materna), ma soprattutto sono diverse dagli uomini e questa caratteristica può essere considerata una ricchezza per la società, non una diminuzione per l’individuo, come sembra pensare la Vassallo. Questo non è solo il pensiero dei cattolici, come ha ricordato Raniero Cantalamessa, ma anche di un filone laico del femminismo che fa riferimento a Luisa Muraro e cioè di quel «femminismo della differenza» che rifiuta di pensare che la liberazione della donna debba passare per la negazione del ruolo materno. Come ha scritto Marina Terragni in un brillante saggio appena uscito (La scomparsa delle donne, Mondadori, pp. 235, 16), «non è questione, come molti credono, di invertire la marcia, di "tornare a casa" o di "far tornare il patriarcato": la questione è se ri-legarsi a sé, se salvare la propria differenza femminile o slegarsene definitivamente». E ha ragione ad affermare che questa è «la più grossa questione politica che dobbiamo affrontare», perché ne va della felicità di tutti: delle donne costrette a mortificare una parte fondamentale di sé e degli uomini privati di un confronto con il diverso, con il complementare. Sembra che sia diffusa una grande paura di tornare indietro e di perdere i risultati di emancipazione raggiunti, come se questo fosse veramente possibile: ma la paura - invocata per esempio quando si scende in piazza con lo slogan «giù le mani dalla 194», come se davvero si potesse tornare a una penalizzazione dell’aborto! - diventa paralisi del pensiero. Se ogni volta che si azzarda una riflessione critica si viene accusate di conservatorismo patriarcale - e naturalmente questo succede ancora di più se la Chiesa manifesta considerazioni simili - non si «genera saggezza», ma si soffoca il pensiero. Diventa così impossibile guardare con occhio critico ai risultati che un determinato modello di liberazione femminista - e non «il femminismo» - ha portato nelle nostre società. E diventa impossibile cercare di pensare a un futuro diverso, a un futuro in cui le donne esistano ancora, con la loro differenza valutata per ciò che di ricco e importante ha per la vita delle società umane. E diventa impossibile cercare di pensare ad altri tipi di femminismo.
«Corriere della Sera » del 22 maggio 2007
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