Un saggio di Mario Martelli
di Luciano Canfora
Esce in questi giorni, col giovanilistico titolo Zapping, lo «Zibaldone» di Mario Martelli (Gli Ori, pp.704, 40) e ha il pregio del disordine. Del resto raccolte cui un dotto affida il quotidiano bilancio delle sue letture e delle riflessioni che esse hanno suscitato in lui presentano non di rado l’aspetto della «selva». Ma la selva costituisce un disordine sui generis: il filo conduttore c’è ed è nella curiosità e negli andirivieni intellettuali dell’«io» che unifica, come soggetto senziente, quella selva. Talvolta il disordine è ostentato per nascondere qualcosa, come è il caso della prefazione, in forma di lettera, della cosiddetta Biblioteca di Fozio. Mario Martelli ha - e non da ieri - una sua stella polare, che è la visione del classicismo come costante della letteratura italiana piuttosto che momento storico circoscritto. Questo presupposto, che in realtà è frutto di vasta ricerca empirica (si vedano le pagine sull’uso poetico di già da Dante a Lalla Romano), si invera in un reticolo di riferimenti ai classici, che Martelli valorizza e chiama alla luce nel mentre che percorre senza sosta i sentieri della letteratura perlustrando, indagando, rileggendo, e spesso facendo progredire l’interpretazione proprio attraverso il riconoscimento della fonte classica che sta dietro un verso o una frase. Per esempio del suo prediletto Machiavelli, al quale già aveva dedicato, per la Salerno Editrice, un attento scrutinio degli storici greci antichi che, pur attraverso il filtro di traduzioni latine, sustanziano tanta parte dell’«uso» machiavelliano della storia. Ma veniamo - in questo «Zibaldone» - ad un caso emblematico del nesso tra scoperta delle fonti e progresso nell’interpretazione. Esso riguarda un verso notissimo e purtuttavia passibile di ulteriore schiarimento, della Ginestra. È il verso 201, il più distaccato del filosofico poema: «Non so se il riso o la pietà prevale». In modo persuasivo Martelli mostra - ciò che era sfuggito ai precedenti interpreti (ma Domenico De Robertis vi s’era approssimato) - che dietro quell’alternativa (riso o pietà) c’è un modello classico: ci sono i due filosofi Democrito ed Eraclito, dei quali l’uno ride e l’altro piange di fronte all’insensatezza dei comportamenti e delle illusioni degli uomini. Alla base c’è una lunghissima tradizione, al principio della quale c’è Seneca, che Martelli opportunamente ricorda e traduce. E si potrebbe anche addurre a riprova certa della fondatezza dell’osservazione di Martelli la lettera di Leopardi a Giordani del 18 giugno 1821: «Ma dimmi, non potresti tu da Eraclito convertirti in Democrito?». «Eraclito - scrive Seneca nel de ira (10, 3) - ogni volta che usciva di casa e intorno a sé vedeva tanto grande numero di malamente viventi, anzi di malamente morenti, piangeva e aveva pietà di quanti gli si facevano incontro contenti e beati. Invece di Democrito dicono che ogni volta che usciva in pubblico gli veniva da ridere: a tal punto nulla di ciò che gli altri seriosamente facevano gli sembrava degno d’esser preso sul serio». La stessa tradizione si ritrova in Giovenale (decima satira): «Ogni volta che mettevano il piede fuori di casa l’uno piangeva, l’altro rideva a labbra aperte». E c’è, a ben vedere, già Orazio delle Epistole. Nella prima del libro secondo egli inquadra in una situazione concreta il riso di Democrito di fronte alla scempiaggine umana: «Se Democrito fosse tra noi, riderebbe nel vedere le facce del volgo pervase da ammirato stupore alla vista della giraffa o dell’elefante bianco». In Luciano di Samosata il topos è ben chiaro, per esempio nelle Vite all’incanto (13). Ed è interessante osservare che esso si presenta per la prima volta come operante anche nella pittura in un’attestazione tarda e molto interessante di Sidonio Apollinare (V secolo dopo Cristo), nell’Epistola al vescovo Fausto. Lì Sidonio cita la pratica di affrescare i ginnasi e i pritanei con una serie di ritratti di filosofi e scienziati ciascuno presentato con la sua connotazione iconografica tipica: «Speusippo a capo chino, Arato con la testa piegata all’indietro, Zenone con la fronte corrugata, Epicuro con la pelle distesa, Diogene con la barba lunga, Socrate con la chioma candida, Aristotele con un braccio proteso, Senocrate con le gambe accavallate, Eraclito che piange con gli occhi chiusi, Democrito invece che ride a labbra aperte etc.» (Epistole IX, 9, 14). Il passo di Sidonio venne ricopiato pari pari da Pietro Crinito nel De honesta disciplina (1508), opera influentissima nel Rinascimento. Essa ha certamente influito sulle varie raffigurazioni pittoriche moderne dei filosofi. Certo - all’interno del ciclo dei filosofi - la coppia Eraclito-Democrito godette di una rinomanza privilegiata, in epoca rinascimentale e moderna. Ritorna in più luoghi delle opere italiane di Giordano Bruno e ritorna nell’anonimo Dialogo tra Eraclito e Democrito sulla Rivoluzione politica di Venezia (1797). E trova significativa realizzazione nella grande pittura rinascimentale per esempio nell’affresco del Bramante che raffigura appunto Eraclito, le cui lacrime (un paio) spiccano sulle scarne e ascetiche guance, e Democrito che se la ride «labris apertis», mentre di mezzo c’è la sfera terrestre raffigurata in planimetria: a significare ancora una volta che è del mondo, dei comportamenti degli uomini, che l’uno ride e l’altro piange.
«Corriere della sera» del 10 giugno 2007
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