Le ultime scoperte su come il nostro organo principe fa fronte ai tanti stimoli dell’era digitale
di Franca Porciani
Ci stiamo abituando all’attenzione multipla. Forse troppo
È innegabile. L’era del consumatore «anfibio» che divide l’attenzione fra uno spot televisivo, una pagina web, un sms e, magari, qualcos’altro ancora, è iniziata. L’arte di fare molte cose alla volta (per ridurre all’osso il concetto che gli americani chiamano multitasking) sembra legata a filo doppio al bombardamento delle tecnologie della comunicazione: alzi la mano chi non parla al telefonino mentre guida, o mentre legge le email. Ma quest’attenzione smozzicata per un singolo compito, il sovvertimento del vecchio «qui e ora» non riduce efficienza e concentrazione? Probabilmente sì, visto che il nostro cervello ha selezionato nell’arco di millenni la capacità di concentrarsi su una cosa sola per volta (e non sembra disposto per ora a cambiare attitudine). Succede allora che, quando crediamo di prestare attenzione a due eventi in contemporanea, in realtà attiviamo l’attenzione e diamo risposta soltanto al primo; quando quest’operazione mentale si è conclusa, ci dedichiamo all’altro. Un «collo di bottiglia» nella selezione delle risposte che assomiglia ad una strada stretta dove arrivano due automobili: insieme non possono passare, avanza prima una, poi l’altra. La dimostrazione di questo risale, addirittura, ad esperimenti del 1952. Il multitasking allora rischia di rovinarci la vita perché tracima qualsiasi possibilità di concentrazione e ci espone ad uno stress «biologico». Ne è convinto René Marois, psicologo alla Vanderbilt University di Nashville sulla scorta dei suoi esperimenti. Uno di questi, forse il più importante, pubblicato nel dicembre scorso sulla rivista Neuron, è quello con cui il ricercatore avrebbe scoperto dove si nasconde nel cervello il famoso «collo di bottiglia». Mettendo a nudo con la risonanza magnetica il cervello di un gruppo di volontari che dovevano scegliere fra otto possibili risposte a compiti proposti in contemporanea, Marois ha identificato due aree della corteccia cerebrale, situate nelle aree frontale e prefrontale, che svolgerebbero un ruolo chiave nel posticipare una risposta rispetto ad un’altra quando gli stimoli sono molto ravvicinati. «Conferma una ricerca, cui ha partecipato anche il nostro gruppo, pubblicata sulla rivista Nature qualche anno fa - commenta Pietro Pietrini, psichiatra e neuroscienziato dell’università di Pisa -. Dimostrammo che quando ci vengono assegnati compiti via via più complessi, a livello cerebrale si assiste all’attivazione progressiva della corteccia cerebrale proprio nelle aree identificate poi da Marois». Il nostro cervello avrebbe, in sostanza, un limite «biologico» di risposta che non si può forzare oltre una certa soglia. Ma, come al solito, c’è chi sostiene che si tratti di un’ipotesi riduttiva e pessimista. In effetti, gli esperimenti di David Meyer, psicologo all’Università del Michigan ad Ann Arbor hanno messo in evidenza che con un allenamento forzato (almeno 2000 tentativi) alcune persone riescono a svolgere due mansioni nello stesso momento con la medesima abilità con cui le avrebbero fatte in successione. In sostanza Meyer è convinto che esista nel cervello un vero e proprio processore del multitasking, o per lo meno del dualtasking, che «sceglie» e modula la successione delle risposte in base alle priorità del momento e ad un’inclinazione individuale. Ci sarebbero cervelli più cauti e altri più temerari (senza, a quanto sembra, differenze significative fra uomo e donna, una volta tanto). Qualcosa di molto più plastico, ma soprattutto plasmabile, del collo di bottiglia identificato da Marois. «Senz’altro c’è una variabilità individuale - precisa Pietrini -. Basti pensare ad un fatto banale: se noi chiediamo per strada a qualcuno che ore sono, c’è chi si ferma per guardare l’orologio e chi lo fa senza sostare. Evidentemente nel secondo caso c’è una certa capacità di dualtasking». Che per ora il dualtasking ci rimanga arduo lo dimostrano le statistiche sugli incidenti stradali: in Gran Bretagna, nel 2005, 400 persone hanno pagato con traumi gravi l’insana passione di telefonare in macchina senza l’auricolare, numero che sale a 330.000 negli Stati Uniti (dati della Ergonomic Society di Santa Monica, in California). «In Italia - informa l’epidemiologo Marco Giustini, esperto dell’area traumi dell’Istituto superiore di sanità - le ricerche che abbiamo fatto ci dicono che un 6-8 per cento degli incidenti automobilistici è dovuto all’uso del cellulare. E che dire dei pedoni? Uno su 18 attraversa la strada parlando al cellulare, nell’80 per cento dei casi in totale distrazione».
Un’indagine realizzata a Roma dall’Istituto superiore di sanità su 700 studenti dai venti ai trent’anni ha rivelato che il 50% usa il cellulare mentre guida per telefonare e per inviare sms
«C’è il rischio che i giovani si sentano onnipotenti»
L’anno scorso la rivista Time-America dedicò la copertina alla neonata «generazione multitasking», quella dei ragazzi dai quindici ai vent’anni che ascolta-vede-gioca diversi media elettronici contemporaneamente. E l’Italia si sta sempre più avvicinando a modelli di vita giovanile molto simili. Ma se è vero che il nostro cervello non è biologicamente costruito per far fronte a tutta questa multimedialità, quali capacità di apprendimento e di concentrazione ci possiamo aspettare dai ragazzi oggi? Lo chiediamo ad un attento osservatore dei fenomeni di costume, lo psicoterapeuta milanese Fulvio Scaparro. «I ragazzi credono di essere tutti come i grandi scacchisti che riescono a giocare con venti persone diverse nello stesso momento. Ma si tratta di individui eccezionali e che si sono sottoposti ad un lungo allenamento. Il rischio di tutta questa sollecitazione tecnologica è che i giovani non capiscano più il processo conoscitivo che porta ad un certo risultato, il perché ci si è arrivati, ma soprattutto il come, il metodo. La facilità con cui accedono alle informazioni, fa saltare loro i passaggi che di queste hanno permesso l’acquisizione e la sistematizzazione» Una sorta di «analfabetismo» da troppa tecnologia? «Per carità, non demonizziamo computer e videogiochi: hanno facilitato e reso più piacevole la vita. Ma senz’altro la possibilità di ottenere un risultato senza impegnarsi troppo - il computer fa la ricerca al posto mio - e con estrema facilità porta ad una sensazione di onnipotenza che mal si coniuga con la "fatica" di concentrarsi su una materia per conoscerla. E l’impazienza non è mai una buona maestra». Ragazzi destinati inevitabilmente all’ignoranza, allora? «Direi piuttosto a muoversi in una realtà che più che virtuale, definirei fittizia. Finché qualcuno non li richiama alla realtà, stimolando in loro una curiosità che oggi troppo facilmente trova risposta nella tecnologia. Qui la scuola ha grosse responsabilità: viva l’informatica, ma basterebbe riportare all’artigianale, eliminando per certi passaggi la tecnologia, l’apprendimento di materie come la musica e l’arte».
«Corriere della sera» del 6 maggio 2007
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