di Pierluigi Battista
Non ancora attrezzato per la raccolta differenziata delle notizie, il giornalismo italiano fa una certa fatica a identificare un criterio certo con cui identificare la «spazzatura» che eventualmente finisca in pagina. Da cosa dipende la degradazione di un documento destinato per sua essenza malvagia a essere inghiottito dalla melma dei rifiuti maleodoranti? Dal nome della persona coinvolta? Non può essere. Dalla qualità delle fonti? In parte sì, ma non del tutto. Dall’inopportunità della pubblicazione: inopportunità politica, storiografica, ideologica, clanistica? Troppo facile e indeterminato. E decisamente arbitrario. Circola invece con una certa insistenza in queste ultime settimane una retorica dell’allarme che svilisce prioritariamente a «spazzatura» quanto pubblicato dai giornali (anche, e forse soprattutto, se si tratta di giornali di consolidato prestigio come La Stampa). In un’intervista all’Unità, Piero Fassino parla con comprensibile inquietudine di «un vento torbido che minaccia l’Italia» e allude all’eventualità di una «regia» occulta. La documentazione relativa allo scontro tra il viceministro Visco e il generale della Guardia di Finanza Speciale è squalificata come un’accozzaglia maleodorante di veleni. La decisione del giudice Forleo di mettere a disposizione degli avvocati i testi delle intercettazioni su Unipol con la presenza di politici e parlamentari è interpretata come un ennesimo, virulento (e «torbido»?) attacco alla «politica». Un clima in cui fioriscono foschi scenari di complotti, si fantastica di ramificatissime e pericolosissime «nuove P2». E i giornali abbondano di dichiarazioni in cui è reiterato l’appello contro i «veleni», la denuncia di chi colpevolmente «avvelena» i pozzi della politica satura l’atmosfera politica e istituzionale di «tossici» potenti e devastanti. Si tratta di una malattia semantica stagionale, e infatti chissà quante volte è risuonata nel corso di questi anni l’espressione corriva «stagione dei veleni». E non si è mai capito, per esempio, perché la denuncia di un pentito di mafia rivolta a una persona potesse essere un utile e imprescindibile contributo alla guerra contro Cosa Nostra e per chiarire i legami tra mafia e politica, mentre invece, rivolta a un’altra persona, potesse essere respinta come un tremendo «veleno». Di «veleni», peraltro, son piene le cronache dei rapporti tempestosi tra magistratura e politica da almeno quindici anni. Cosa fa pensare che stavolta avremmo a che fare con veleni letali e non con benefici contravveleni da somministrare copiosamente all’opinione pubblica, come in passato? Appunto, il criterio appare troppo vago, inconsistente, volubile. C’è un «vento torbido», come denuncia allarmato Fassino? Perché, finora quale vento avrebbe spirato, forse una tonificante tramontana destinata a spazzare via miasmi stagnanti e segreti inconfessabili di una parte della «casta» politica? Il guaio è che tutto (la politica, il giornalismo, la magistratura) ha ruotato attorno al primato del giudiziario, spaccando in due l’opinione pubblica, divisa tra una parte accecata dal furore contro le «toghe rosse» e l’altra incantata dall’opera purificatrice di un manipolo di coraggiosi con la missione di estirpare per sempre il malaffare dall’Italia. In questa divisione manichea l’opinione pubblica si è riconosciuta, identificata, specchiata senza riserve. Ma il rovesciamento dei ruoli cui si assiste in questi giorni funziona come un terremoto, travolge categorie consolidate e semina un vento, questo sì, di incertezza e smarrimento: la condizione ideale per la fioritura di fantasie complottistiche.
«Corriere della sera» dell’11 giugno 2007
Nessun commento:
Posta un commento