Corsi e Ricorsi. Sinistra e pensatori: l’ultimo rito del Partito che fu
di Pierluigi Battista
Anche i filosofi si deve sobbarcare il povero Fassino, in questi giorni così tremendamente complicati? Ma se la nascita del Partito democratico è già tanto tormentata di suo, era proprio necessario il rito tardo-comunista dell’incontro officiato dal Segretario Generale al cospetto di artisti e poeti, scrittori e politologi, pubblicitari e opinion maker della filosofia italiana contemporanea? A Roma, ieri, un’altra tappa dei colloqui fissati da Piero Fassino per scambiare qualche parere con le figure rappresentative della nuova intellighentsija. Ma chissà quanto avrebbe voluto farne a meno, mentre tutt’intorno urla la bufera. Se non fosse per quell’ultima rimembranza liturgica, quell’ultimo, sottilissimo legame mentale con una tradizione che non c’è più e che nel nuovo partito post-ideologico, post-novecentesco, post-tutto, insomma nel Partito democratico che dovrebbe frullare ogni tradizione, non troverà mai più un rifugio ospitale. Perché alla fin fine, quella nobile categoria rubricata come «rapporto tra il partito e gli intellettuali» è pur sempre un’impronta che resta nell’anima di chi ha mosso i suoi primi e decisivi passi nel fu Partito comunista italiano. La «battaglia delle idee», come dimenticarne la grandezza? E la lezione gramsciana, la conquista della trincea culturale nella società civile, l’«egemonia» che si incarnava nelle tante figure dell’intellettuale moderno, dal grande cineasta all’oscuro redattore della casa editrice, dal filosofo sommo al giovane erudito di provincia che, come lo Stefano Satta Flores di C’eravamo tanto amati, trovava nel Partito il compimento di una missione, la cultura come riscatto, la parte migliore e più colta della società? Certo, in quella storia spiccava pur sempre l’animus intollerante del Togliatti che commentava sardonicamente l’irrequietezza di un intellettuale refrattario a suonare il piffero della rivoluzione con un feroce «Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato». C’è anche il leader aduso a sferzare gli intellettuali che osavano eccepire sulla linea zdanoviana, che indossava i panni di Roderigo di Castiglia per insolentire i recalcitranti al dogma, che coltivava la civetteria di chiosare con la sua penna stilografica a inchiostro verde gli scritti sulla tolleranza di Voltaire mentre non perdonava nessuna debolezza degli intellettuali fiori all’occhiello del partito. Ma l’imprinting di un partito che si rimirava come «intellettuale collettivo» era ben diverso dagli altri partiti che la cultura la trascuravano, e perciò venivano disertati in massa dagli intellettuali. Quale altro partito poteva vantare un grande latinista come Concetto Marchesi, un archeologo strepitoso come Ranuccio Bianchi Bandinelli? E Nuovi argomenti di Alberto Moravia non intervistava forse Togliatti? E, un po’più in là, negli anni Settanta, con chi se non con il Pci discuteva Bernardo Bertolucci quando girava Novecento, periodo che oggi il regista descrive come un’età dell’oro della Cultura, quando gli intellettuali, lo ha raccontato Miriam Mafai, facevano la fila attorno a via Botteghe Oscure e il partito del compromesso storico era al massimo delle sue fortune elettorali? Che differenza, con lo Scelba che bollava sprezzantemente come «culturame» gli intellettuali protagonisti del «firmamento» (copyright Nello Ajello), che non era il cielo stellato ma la poderosa fabbrica delle firme in calce a ogni genere di appello filo-comunista. Certo, non tutto era paradisiaco in quel mondo di intellettuali «organici», le cui rancorose frustrazioni venivano raffigurate da Ettore Scola in un film, La terrazza, che sin dal titolo è diventato l’emblema di un modo di essere nel rapporto tra la cultura e il partito, anzi il Partito. E quanto velleitarismo in quel ceto dei colti che si ritrovò caricaturizzato in Lettera aperta a un giornale della sera. Ma insomma, se Berlinguer doveva nel 1977, pochi giorni prima della cacciata di Lama all’Università di Roma, disegnare il profilo dell’«austerità» come contrassegno di un partito che non voleva e non poteva rinunciare alla sua anima anticapitalistica, era agli intellettuali che si rivolgeva, radunandoli in un oramai leggendario pantheon riunito presso il Teatro Eliseo di Roma, anche a costo di urtare la suscettibilità dell’Alberto Asor Rosa intento a costruire la sua teoria delle «due società». Rapporti difficili, talvolta conflittuali, ma sempre essenziali, quelli tra il Partito e gli intellettuali. Quando il gruppo dirigente di Occhetto imboccò la strada della Bolognina per decretare l’addio al Pci, furono proprio gli intellettuali i più riluttanti al cambio di nome e insegne. Ritrovandosi, che coincidenza, proprio all’Eliseo. E ricevendo dai dirigenti della svolta (copyright Fabio Mussi vs Natalia Ginzburg) l’accusa di aver fatto del partito un confortevole «bambolotto di pezza» a proprio uso e consumo. Segni di una frattura politica e psicologica destinata a riprodursi in una lenta, ma inesorabile separazione in tutti gli anni del post-Pci, dove il consenso degli intellettuali è parso più alimentato dalle aspettative per la sinistra al governo (e soprattutto per i ministeri di competenza) che da un caloroso appoggio a un ideale di redenzione. Una frattura che nel gennaio del 2002 si vedrà amplificata, spettacolarmente rappresentata e mediaticamente sovraccaricata dall’ormai celeberrimo «urlo» di Nanni Moretti a Piazza Navona. È qui che la memoria di un’antica tradizione ha perso il sopravvento. Con gli intellettuali bisogna parlare, interloquire, perché può sempre venirne fuori qualcosa di intelligente: e Fassino, a differenza di Rutelli e D’Alema, decise di interloquire. È la stagione dei girotondi, in cui gli intellettuali, però, non interloquiscono: sparano sul quartier generale. È sempre Fassino che si sottopone a un pubblico processo in cui gli intellettuali, riuniti nella Sala dello Stenditoio del San Michele di Roma, mimano un ideale plotone d’esecuzione in cui i politici recitano ineluttabilmente la parte della vittima. Si accaniscono Furio Colombo, Moni Ovadia («ci siam fottuti la memoria»), Asor Rosa («la vostra arroganza»), Lidia Ravera («frequentate il salotto degli intellettuali e noi ci sporcheremo le mani in cucina»). Si raggiungono le vette dell’avanspettacolo quando il Gianni Vattimo che chiede a Fassino: «a Torino io vado in tram, Fassino ci va mai in tram?», viene inurbanamente interrotto dallo scrittore Antonio Pennacchi del Fasciocomunista con un ruspante «a Vattimo, e tu vattene aff...». Fine di una storia, che nessun tour di incontri con gli intellettuali per il nuovo Partito democratico potrà mai riportare in vita.
VATTIMO E IL TRAM *** Il filosofo: «A Torino vado in tram, Fassino ci va mai?». Pennacchi lo interrompe: «A Vattimo, e tu vattene aff...»
IL PANTHEON DEL ‘77 *** Enrico Berlinguer nel ‘77 radunò gli intellettuali al Teatro Eliseo di Roma in un oramai leggendario pantheon
Politica e idee/1 SATTA FLORES L’«egemonia» culturale si incarnava nelle tante figure dell’intellettuale moderno, come il giovane professore di provincia, interpretato da Stefano Satta Flores in C’eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974), che trovava nel Partito il compimento di una missione
VITTORINI Lo scrittore siciliano Elio Vittorini nacque a Siracusa nel 1908 e morì a Milano nel 1966. Tra i suoi capolavori, Conversazione in Sicilia. Palmiro Togliatti commentava l’irrequietezza di un intellettuale refrattario a suonare il piffero della rivoluzione con un feroce «Vittorini se n’è gghiuto e soli ci ha lasciato»
PENNACCHI Classe 1950, l’autore di Fasciocomunista è stato iscritto da ragazzo al Movimento sociale italiano poi, espulso, è passato, nell’ordine, al Psi e infine al Pci, prima della definitiva espulsione nell’83. Dal suo libro sulla «vita scriteriata di Accio Benassi», il regista Daniele Lucchetti ha tratto il film Mio fratello è figlio unico, con Elio Germano e Riccardo Scamarcio
Politica e idee/2 ASOR ROSA Nel 1977 Alberto Asor Rosa partecipò al grande raduno degli intellettuali al Teatro Eliseo, organizzato da Enrico Berlinguer. Anni dopo, nella Sala dello Stenditoio del San Michele, sempre a Roma, Asor Rosa attaccò duramente i vertici Ds: «La vostra arroganza»
OCCHETTO Il Pci ha avuto rapporti difficili, talvolta conflittuali, con gli intellettuali. Quando il gruppo dirigente di Achille Occhetto imboccò la strada della Bolognina (sopra le lacrime del segretario) per decretare l’addio al Partito comunista italiano, furono proprio gli intellettuali i più riluttanti al cambio di nome e insegne
SCOLA Il mondo degli intellettuali «organici» e le loro rancorose frustrazioni furono raffigurate dal regista Ettore Scola ne La terrazza (1980) con Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Jean-Louis Trintignant, Stefania Sandrelli e Vittorio Gassman. Il film è diventato l’emblema di un modo di essere nel rapporto tra la cultura e il partito
«Corriere della sera» del 14 giugno 2007
Nessun commento:
Posta un commento