Parla Julien Ries, massimo esperto di riti e simboli, mentre esce il suo libro dedicato a religione e politica
di Armando Torno
«Escludere i miti è un’illusione laica E ogni partito resta una Chiesa»
Julien Ries è uno dei più autorevoli antropologi del sacro del nostro tempo. Come nessun altro ha studiato le connessioni tra religione e politica, tra simboli e realtà. Incontrarlo - ora che la Jaca Book ha avviato l’Opera omnia in 11 grossi tomi - significa chiedersi quali scenari si apriranno nel terzo millennio. Il lungo magistero all’Università di Lovanio e il servizio sacerdotale, che mai ha tralasciato, hanno reso i suoi discorsi essenziali. Parla come chi ha conosciuto troppe cose, pesando frasi e sillabe, senza preoccuparsi di essere dolce o riverente con le idee che consentono ai salotti televisivi di tirare avanti. Comincia: «Il sacro è come l’amore, la politica invece assomiglia al cibo. Ma senza il sacro sarebbe difficile pensare o capire le ragioni ultime della politica. Gli osservatori acuti sanno che ogni intuizione politica è in parte nata da un’idea teologica». E ancora: «Ogni forma politica ha bisogno di sacro - dimensione dell’uomo che entra continuamente nel gioco della storia - o sparisce. E chi tende a escluderlo si illude, perché lo trasforma. Non possiamo vivere senza riti, senza simboli e senza miti, così come non riusciamo senza gli altri. Ogni partito politico è simile a una piccola Chiesa». Non ce la sentiamo di replicare. Di certo, sfogliando il volume da poco in libreria, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità (Jaca Book), è inevitabile chiedergli qualcosa intorno alla democrazia, idea diventata per il mondo contemporaneo punto di riferimento assoluto. Sorride, non si fa pregare: «La democrazia, per realizzarsi, tende a eliminare il sacro. O meglio, si potrebbe dire che questa nobile forma di governo è un tentativo di sostituirlo con idee e progetti che mirano al bene comune. Ma, così facendo, la storia insegna che può creare un vuoto, il quale - lo ripeto - si colma con altre forme (a volte imprevedibili) di sacro. D’altro canto, non dimentichi che i totalitarismi del XX secolo, nati intorno a figure quali Mussolini, Hitler o Stalin, hanno compiuto un percorso inverso cercando di risacralizzare il potere per dotare di maggiore autorità le loro azioni: per questo hanno cancellato i rapporti democratici». Una pausa. Poi continua: «È una storia che si perde nei tempi e che si comincia a osservare negli antichi regni dei sumeri o degli egizi, dove c’era una connessione stretta tra politica e sacro; in Grecia, invece, il rapporto salta e la politica diventa laica. L’uomo, però, non è mai riuscito a dimenticare il sacro. Eliminato da una parte, si presenta dall’altra e anche oggi fa sentire il suo peso. Pensi a quanto è successo nella recente campagna elettorale in Francia per la corsa all’Eliseo: entrambi i candidati, dopo aver sottolineato il loro laicismo, hanno sentito il bisogno di spiegare quale posizione avessero con la religione. E anche in Italia non è possibile fare politica ignorando le questioni religiose». Le pause di Julien Ries sono micidiali. Sembrano i silenzi dei vecchi capitani di nave, dinanzi ai quali si può solo rispondere con altri silenzi. Dovete aspettare che il comandante riprenda il discorso, quasi fosse un vento favorevole. «Perché è difficile da spiegare questa connessione tra politica e sacro?», prosegue il maestro di Lovanio. Si risponde: «Forse perché l’homo religiosus (nacque quando comparvero le tombe) fece la sua apparizione poco meno di 100 mila anni prima dell’homo politicus, che divenne tale con la scrittura. Noi, per dirla in breve, siamo gli eredi di quest’ultimo homo e anche di una serie di problemi legati al sacro che per decine di millenni sono rimasti aperti». Sembra quasi che Ries voglia condurci per mano in una dimensione dove i nostri antenati hanno lottato per dimenticare, nella quale le grandi ierofanie - le manifestazioni del sacro - hanno condizionato la vita e posto un’ipoteca sul futuro. Noi che ci crediamo democratici e laici forse non abbiamo ancora concluso l’antica guerra con i misteri che ci avvolgono. Il maestro di Lovanio continua: «La politica vive di simboli: dall’inno nazionale al distintivo che si mette all’occhiello. Ma ogni simbolo altro non cerca di essere che la rivelazione di un mistero. Per questo le dittature li hanno moltiplicati». E ancora: «Hitler pensò innanzitutto a un riferimento forte. La svastica è stata forse la più grande sovversione simbolica della storia: è la potenza del sole che viene trasformata nella potenza del Führer. Ma anche la falce e il martello, che rappresentano i miti del marxismo, sono simboli formidabili. Il denaro, invece, è l’immagine del liberalismo; vale a dire, è il tentativo di rendere acquistabile e disponibile la realtà con un mezzo che si è trasformato in qualcosa di sacro». Con Ries si desiderano affrontare anche le questioni aperte che caratterizzano la vita contemporanea. Per questo ci sfugge una domanda che si allontana dalle precedenti, ma che comunque riguarda un diffuso problema della nostra realtà sociale: «E la droga?». Non lascia passare nemmeno un secondo: «È un sostituto del sacro». Poi aggiunge, quasi a precisazione: «L’uomo di oggi cerca il simbolo, ma bisogna ammettere che non riesce a riconoscerlo. Lo confonde, lo immagina, lo scambia con altro. E continua a cadere in contraddizioni: parla ancora e sempre di nazismo e comunismo, condannandoli giustamente, ma rendendoli sempre presenti. Non ha più un’idea del sacro e a questi mali attinge qualcosa... Qualcosa di indefinito che dovrebbe indurci a riflettere seriamente». Il discorso, chissà perché, ha toccato poi il suicidio («è la perdita di un legame con i simboli, con la vera identità dell’uomo»); quindi Ries ricorda Mircea Eliade e Georges Dumézil («due care persone, con le quali ho discusso a lungo»); infine gli abbiamo chiesto se condivide la tesi di René Girard - l’autore de La violenza e il sacro, un saggio continuamente ristampato da Adelphi - che vede appunto nella violenza il cuore autentico e l’anima segreta del sacro. Risponde: «È un fatto che l’esteriorizzazione della violenza, nel sacrificio espiatorio per esempio, sia considerata come necessaria alla sopravvivenza del gruppo. In ogni caso, il sacro moderno o postcristiano, che ritroviamo in mezzo al capovolgimento operato dalla nostra cultura, sembra coincidere con tutte le ambiguità dell’istinto religioso». E tali ambiguità, per loro natura, possono generare violenza. Inducono a ripensare l’uomo che verrà attraverso il sacro che continua a vivere nelle idee e nei nostri gesti. Siano essi ispirati alla pace od offerti a una «guerra giusta».
«L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità», di Julien Ries, è edito da Jaca Book (pagine 704, 58) Tra gli altri libri di Ries, «Lo sguardo del cattolicesimo» e «I volti del buddhismo»
Julien Ries, docente emerito a Lovanio, è attualmente il maggiore antropologo del sacro
«Corriere della sera» del 14 giugno 2007
________________________________________________________________
Ma anche lo Stato ha i suoi culti
di CristinaTaglietti
La Repubblica ha un costo, come tutti i regimi, e la democrazia non nasce dal consenso, non è indolore, ma implica confronti e prove di forza. E se ci si toglie le scarpe prima di entrare in una moschea, perché non si dovrebbe lasciare il velo fuori dalla scuola? Cosa ci vela il velo (sottotitolo: «La Repubblica e il sacro») è un piccolo pamphlet nato dalla partecipazione di Régis Debray alla commissione Stasi, voluta nel 2003 da Chirac per «riflettere sull' applicazione del principio di laicità contenuto nella Costituzione tenendo conto della realtà della società francese». Nato come lettera aperta agli altri membri della commissione, il testo (ora tradotto da Michele Bertolini per Castelvecchi, pp. 80, 7) vorrebbe essere una riflessione più sulla scuola che sulla religione (una scuola intesa come «asilo inviolabile nel quale le dispute degli uomini non penetrano»), ma finisce con essere un' analisi dei rapporti tra uno Stato moderno e il Sacro. Debray prende in considerazione tutte le possibili obiezioni a una legge restrittiva sul velo nella scuola, tra cui: dovremmo costringere le scuole ebraiche a proibire la stella di David o quelle cattoliche a bandire la croce d' argento? Tuttavia, sostiene il filosofo, le leggi non hanno solo una funzione repressiva, hanno anche una forza espressiva e il fatto che una legge non risolve tutti i problemi non vuol dire che non sia necessaria. La questione del velo islamico «traduce una spinta teocratica su vasta scala, un espansionismo senza direzione unica, senza un progetto segreto e senza espressa volontà di nuocere» che finisce però «con l'imbattersi in universi secolarizzati e vulnerabili». La laicità per il filosofo è una parola vuota: esiste semmai lo «Stato laico» che può imporre, per decreto, la laicità. Eppure lo Stato laico francese, scrive Debray, è nato come contro-Chiesa, con i suoi testi sacri, le immagini pie e le cerimonie: «Per il catechismo repubblicano le urne erano un tabernacolo e la cabina elettorale un confessionale» e a tutt'oggi la Repubblica, lungi dall'essere un assoluto, «si è rivelata la forma migliore di organizzazione, in grado di proteggere questo lascito sacro che potremmo chiamare, a seconda dei punti di vista, sovranità della coscienza, libertà della persona, o diritti dell' uomo». Il pamphlet si chiude con quella che sembra solo un'avvertenza linguistica e invece racchiude, probabilmente, il senso dell'intero intervento: l'uso improprio di «religione», parola di origine latina che non può essere applicata a tutte le latitudini. Solo il sacro è universale, tutto il resto è culto.
«Corriere della sera» del 14 giugno 2007
Nessun commento:
Posta un commento