Lo scrittore italiano a colloquio con il collega spagnolo sul suo nuovo libro «Ballo e sogno», dove la grande storia del Novecento si intreccia con le biografie dei protagonisti. «Viviamo in un’epoca - denuncia Marías - in cui ogni alfabetizzato si trova a scrivere romanzi»
di Claudio Magris
«La guerra civile ci ha costretto all’infamia» - «Oggi i leader dicono bugie senza necessità»
Nella dedica che accompagnava quattro anni fa il primo volume della trilogia, Javier Marías mi augurava che i miei «volti oggi più cari lo siano anche domani». Questo interrogativo - quale sarà domani il viso che amiamo e che ci è vicino, quali latenti potenzialità (magnanime, meschine o abbiette) la vita il tempo e il caso porteranno alla luce e stamperanno in quei lineamenti, come è possibile intravvedere già adesso in quei tratti il loro futuro che sta germogliando - è il grande tema del suo romanzo intitolato Il tuo volto domani, di cui esce ora in Italia la seconda parte, Ballo e sogno, nell’ottima traduzione di Glauco Felici. In questo motivo si condensa quel senso della vita che Marías sa esprimere con una potenza poetica in cui si fondono asciutta e a tratti lancinante malinconia, fredda acutezza dello sguardo, ironia, invenzione, linguistica precisione, contenuta e struggente passione. Marías è uno dei più grandi scrittori viventi - si pensi a libri quali Un cuore così bianco, Domani nella battaglia pensa a me o Nera schiena del tempo. Nelle sue storie (spesso raccontate da un protagonista- narratore in prima persona) egli fa sentire l’insondabile e opaca profondità della vita, la dolorosa e inevitabile rinuncia a ogni piena confidenza e fiducia, la possibilità di grazia e di orrore in ogni istante, il processo di universale sostituzione di ogni cosa, sentimento e persona. Ci sono rivelazioni fulminee sull’amore e sull’estraneità coniugale, sulla violenza, sulla paura, sul tradimento, sul rapporto tra i vivi e i morti; epifanie di aspetti essenziali e inavvertiti della condizione umana, che talora appare come una continua delazione travestita in mille forme. Questo impalpabile e insieme preciso tessuto della vita è lo sfondo per vicende misteriose e intrighi polizieschi; in questo romanzo - ambientato a Londra, anche se la Spagna è sempre presente - il protagonista-narratore viene invischiato in un’organizzazione di spionaggio e di investigazioni che si collega all’attività patriottica e criminosa dei Servizi Segreti nei terribili anni della guerra di Spagna (con i suoi orrori da entrambe le parti), della seconda guerra mondiale e dello smantellamento dell’impero Britannico. L’ambigua rete clandestina coinvolge quel mondo accademico inglese (la grande università di Oxford, con i suoi personaggi straordinari) che è stata, con la sua cultura, un vivaio di spie, agenti segreti, eroi, e traditori, nel grande Doppiogioco della guerra, della politica e della vita. Ma in realtà la trama misteriosa - dallo svolgimento sempre rimandato e sospeso - è solo lo sfondo della storia principale, quella interiore del protagonista, narrata nelle digressioni che interrompono, rallentano e differiscono l’azione: riflessioni, osservazioni, ricordi che fanno emergere altre storie e altre figure, in un continuo crescere a spirale di una conoscenza la cui luce scopre intorno a sè un buio sempre più grande. Il vero protagonista è forse il tempo: il presente dell’accadere e il passato che nella memoria e nell’analisi ridiventa presente e s’intreccia con l’accadere; il tempo di una moglie morta giovane e destinata dunque a restare sempre giovane e a non diventare mai la moglie del vecchio che è stato suo marito; il tempo di chi non fu lo zio Alfonso del protagonista che ne parla, perché assassinato dai miliziani repubblicani molto prima che quegli nascesse; il tempo dei morti e del loro futuro nel dialogo con i vivi. Tempo plurimo divenuto carne e sangue della persona; noi siamo tempo rappreso, ha scritto anni fa Marisa Madieri. Quale è il tempo del narrare? gli chiedo. Non l’ho mai incontrato, ma anche «l’amicizia lontana», come ha scritto in quella dedica, è amicizia, come mi ha dimostrato nominandomi «duca» di quel fantasioso regno di Redonda di cui, con serissimo humour, Marías è divenuto re con facoltà di nominare dei Pari del Regno (scrittori, artisti, registi) che hanno diritto di scegliersi il proprio titolo. Coppola, ad esempio, è Duca di Megalopolis; io ho scelto di essere Duca di Seconda Mano. Nei Suoi libri e soprattutto in questo - gli chiedo - talora sembra che la salvezza della vita stia nel raccontarla, talora nel tacerla, nel «lasciare semplicemente che le cose passino». Taci e salvati, si ripete spesso. Ma allora il protagonista che racconta, e l’autore che racconta di lui... Marías: Veramente a nominarLa duca del leggendario Regno di Redonda (creato non da me, ma da M. P. Shiel, scrittore pregevole, nel 1880), sono stati gli altri «duchi», che ogni anno danno a uno scrittore o a un cineasta non di lingua spagnola il premio che Lei ha avuto nel 2003 e che quest’anno andrà a George Steiner, «duca di Girona». Io lo organizzo e lo finanzio, ma non voto; per questo c’è una giuria di gente come Coetzee, Almodóvar, Rohmer, Savater, Antunes, Citati, Munro, Boyd e altri. L’«amicizia lontana» è sempre possibile con gli scrittori, attraverso i loro libri, e ha il vantaggio di essere disinteressata in quanto unilaterale - l’amicizia del lettore verso lo scrittore. Così siamo amici anche di scrittori morti come Shakespeare, Cervantes o Lampedusa, pur non potendo venir ricambiati. Magris: Una curiosità: perché pubblicare separatamente i tre volumi, che costituiscono un tutto unico? Anche questo s’interrompe, lasciando il lettore col fiato sospeso... Marías: Per due ragioni. Anzitutto detesto i libri (quelli contemporanei) troppo lunghi e non vorrei infliggere a nessuno uno che alla fine avrà milleseicento pagine. È un mio rispetto per il lettore; se non ha trovato interessante il primo volume può fare a meno di comprare gli altri. Ma il motivo principale è del tutto personale. Ci sono due persone - mio padre, il filosofo Julián Marías, nato nel 1914, e sir Peter Russell, antico cattedratico di Oxford, nato nel 1913 - che mi hanno prestato volontariamente le loro vite affinché io potessi farne due personaggi centrali del romanzo ed erano molto curiosi di vedere come sarebbero stati reinventati. Temevo che, data la loro età e salute, non riuscissero a vedere il romanzo compiuto. Così invece - sono morti rispettivamente nel 2005 e nel 2006 - hanno potuto leggere almeno le prime due parti, anche se non potranno leggere la terza. Perciò sono lieto di aver deciso così, anche se ho abusato della pazienza dei lettori. Ma Lei sa che oggi abbiamo dimenticato l’antico rispetto per i morti, come del resto per i vivi, e che dovremmo recuperare entrambi. Magris: Fra le tante cose che sento particolarmente congeniali nel libro, c’è il racconto in prima persona, con la perfetta fusione di elementi autobiografici e di finzione che li rielabora e ne fa una cosa diversa, anche quando li riporta materialmente tali e quali, come - credo - nel caso delle figure del padre e della madre. Talora si ha tutta via l’impressione che, dietro il personaggio del protagonista-narratore (acutissimo ma incerto, assente moralmente passivo dinanzi alla violenza), emerga l’autore, con i suoi decisi furori morali, ad esempio nella denuncia delle infamie durante la guerra di Spagna o delle menzogne nelle guerre di oggi... Marías: Sì, c’è una fusione di elementi autobiografici e di finzione, come è sempre successo nel romanzo; solo che una volta sapevamo poco degli autori e adesso troppo. Tutto il mondo, immagino, sa della dolorosa perdita che ha segnato, anni fa, la Sua vita, mentre un tempo i lettori ignoravano se Conrad o ancor più Diderot, erano sposati, scapoli o vedovi, e molti credevano che Conrad fosse inglese. Ma conta poco da dove provengono i materiali che uno utilizza; il buon romanziere fa sì che alla fine siano indistinguibili e formino un tessuto più o meno uniforme, senza che al lettore importi cosa sia vero e cosa sia inventato. Tutto finisce - o dovrebbe - per essere allo stesso tempo verità e invenzione. Ma Il tuo volto domani parla del desiderio di non sapere ciò che potremmo sapere sulle persone a noi vicine o su noi stessi: se ci tradiranno o le tradiremo, se siamo o no affidabili, se sapremmo reagire alla violenza inflitta ad altri o potremmo infliggerla noi stessi. La Guerra Civile spagnola, ricordata dal padre del narratore, appare la situazione estrema che ha obbligato molta gente a indagare queste cose, mentre avrebbe potuto passare la vita intera ignorandole e probabilmente la cosa migliore è non dover indagare. La Guerra Civile è stata il male assoluto sebbene anche in essa vi siano stati casi di incredibile bontà e decenza in mezzo a una indecenza generalizzata. Purtroppo però sono stati pochi. Oggi, disgraziatamente, non c’è nemmeno bisogno di situazioni estreme. Anche all’infuori di esse, gente come Bush, Blair, Aznar e Berlusconi mentono senza sosta, vivono, sono installati nella menzogna e la cosa peggiore è che tanta gente lo trovi normale e lo tolleri. Magris: Fra i doni che Lei ha ricevuto dai Suoi déi c’è la capacità di racchiudere in poche righe il senso di una storia, di una vita; in questo libro, per esempio, pochi indimenticabili tratti raccontano un’intera, profonda storia coniugale e famigliare. La narrazione generale è invece al rallentatore, i veri e propri fatti ed eventi romanzeschi si distendono in molte pagine... Marías: Sì, una delle cose che più mi interessano è il tempo e soprattutto far sì che nella letteratura esista il tempo cui la rapidità del tempo stesso non lascia il tempo di esistere veramente. Ma esso esiste, soprattutto retrospettivamente. Per esempio, di una lunga notte di discussioni con una persona amata, alla fine ti resta solo un momento particolare in cui lei ci ha guardato in un certo modo o ci ha fatto una carezza nonostante ci stesse abbandonando. Nei miei romanzi cerco che si produca una «sospensione del tempo», impossibile nella vita reale ma non nella nostra mente. In Ballo e sogno c’è un esempio forse eccessivo di questo: qualcuno alza una spada per decapitare un altro e prima di sapere se lo decapita o no passano decine di pagine. Ma vorrei che il lettore si interessasse anche a quello che si racconta in queste pagine «ritardanti», accettando di buon grado la dilazione e la sua iniziale impazienza. Ma Lei ha fatto cose simili, ad esempio in Danubio, con tante digressioni, deviazioni, storie differite o incrociate. Mi ricordo sempre di quello che diceva Sterne, il cui Tristram Shandy, ho tradotto a venticinque anni: «Il mio progresso è la digressione...». Bisogna certo che quest’ultima sia anche parte della storia e non una parentesi non necessaria. Magris: In un’intervista con Sarah Fay, Lei ha dichiarato che la vita è un cattivo e inverosimile romanziere. Anche a me è successo di dover escludere dal racconto alcuni elementi reali, perché sarebbero sembrati un’invenzione forzata. Direi tuttavia che la vita è spesso anche originale, come diceva Svevo; inventa cose incredibili - verità più fantasiose della finzione, diceva Melville - come del resto il Suo Regno di Redonda. Forse la vita è un grande narratore di singoli particolari, che non sa comporre in un’efficace struttura, per la quale occorre il romanziere... Marías: Sì, e non resta che accettare, nella vita, coincidenze e casualità incredibili, che mi sembrano le più naturali del mondo ma risultano inaccettabili in un romanzo, che è sempre un artificio, nel senso più nobile della parola per cui in esso tutto deve essere ben misurato e assemblato, senza le tremende dissonanze cui la vita è così propensa. Quando un autore, per giustificare qualcosa di inverosimile in un suo racconto, dice che in realtà è successo proprio così, gli risponderei sempre che non importa, che in un romanzo le cose non possono succedere così e che pertanto nel romanzo quella non è verità, bensì un falso, qualcosa di artificioso. Per questo sono sbalordito che al mondo ci siano moltissimi romanzieri e quasi ogni alfabetizzato si trovi a scrivere romanzi. Per me è un genere difficilissimo, che non consiste solo nel raccontare una storia in modo comprensibile. Un romanzo è anche un mondo nel quale si può andare a vivere, ad abitare per un certo periodo (lungo per lo scrittore, più breve per il lettore). E tutti, credo, speriamo che questo mondo continui ad aver risonanza anche quando si è chiuso il libro, che continui ad essere incorporato nella nostra esistenza. Riuscirvi è difficilissimo. Quasi sempre invece succede che i libri ci parlino solo mentre li leggiamo.
«Corriere della sera» del 1 maggio 2007
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