La sinistra continua a raccontare la favola di un'Italia imbarbarita dalle tv di Berlusconi. Ma l'egemonia della volgarità parte da più lontano. Prima di Amici c'era Carramba. E prima di Zelig vennero i film di Franco e Ciccio
di Marcello Veneziani
C’era una volta un’Italia bella che viveva all’ombra dell’egemonia culturale della sinistra. Poi arrivò la destra neoliberista e il popolo passò da Gramsci al gossip, e si abbruttì sotto l’egemonia sottoculturale del berlusconismo. Dall’intellettuale collettivo la bella Italia degradò al regno delle veline, dei tronisti, delle iene, dei grandi fratelli. Questa è la favola che ci viene raccontata ogni giorno dai piangenti cantori della barbarie italiana, di cui è uscita di recente anche una summa intitolata appunto L’egemonia sottoculturale di Massimiliano Panarari, edito da Einaudi (che, guarda un po’, è di proprietà berlusconiana).
È una favola reazionaria per nostalgici progressisti che vagheggiano un mondo che non c’è mai stato. Perché l’egemonia culturale della sinistra c’è stata e c’è ancora, ma non è mai stata egemonia della cultura popolare. È stata ed è un’egemonia che esercita il suo dominio nell’ambito delle minoranze intellettuali e dei poteri culturali; ma non ha mai pervaso il sentire comune. E quando dominava il gramscismo nella cultura, al potere c’era la Democrazia cristiana, il capitalismo degli Agnelli e dei Cuccia, la protezione della Nato. Quando Gramsci andava forte, la cultura popolare del nostro Paese era nelle mani di Mamma Rai di Ettore Bernabei, dei suoi sceneggiati e del suo intrattenimento, di Santa Madre Chiesa con le sue parrocchie e i suoi oratori, e del fantastico mondo di Sanremo, un disco per l’estate, Canzonissima, Miss Italia, tutto il calcio minuto per minuto, la Lotteria e il Lotto. Quando non c’era ancora la De Filippi con la tv berlusconiana c’era la Carrà sulla tv di stato, nel suo viaggio dal tuca tuca a Carramba che sorpresa. Se la tv è oggi quella corrida a cui l’avrebbe ridotta il berlusconismo, secondo Umberto Eco, è perché c’era in Rai la Corrida di Corrado che coglionava i dilettanti allo sbaraglio, alimentando narcisismo e derisione. Quando in tv non c’era Zelig berlusconiano, in Rai c’erano Franco e Ciccio; erano forse più colti e gramsciani? Se la De Filippi evoca in Panarari addirittura Nietzsche, allora Fantozzi è l’erede di Marx. E poi che senso ha attribuire questo mondo alla destra neoliberista: il Gramsci dell’egemonia sottoculturale è stato Maurizio Costanzo, nato e cresciuto in Rai e sdoganatore di opinioni, vizi e gusti «de sinistra», salvo l’ossequio all’editore. Simona Ventura, «la protovelina» per eccellenza secondo Panarari, veicola una sottoideologia antiberlusconiana, vagamente sinistrese. E molti comici e cineasti dell’era volgare berlusconiana sono succedanei gramsciani da sballo.
Alberto Asor Rosa scorge nel Grande Fratello l’ideologia dominante dell’Italia berlusconiana: chi glielo dice al Professore che il format è stato importato dalla progressista Olanda e ha fatto il giro del mondo? Chi glielo dice ai predicatori dell’Italia perduta che Amici, il becero format di Maria De Filippi, non nasce dalle viscere del berlusconismo ma è un format inglese, Pop Idol, importato in tutto il mondo, che va forte anche nell’ex sovietico Kazakistan? O che le telenovelas, la tv dei palestrati e delle rifatte, non vengono fuori dal lifting berlusconiano ma dalla tv sudamericana, colombiana e brasiliana in particolare? E quanto viene attribuito al berlusconismo, da Drive in alle sit com e ai reality, è in realtà made in Usa, cioè figlio dell’internazional-popolare?
Ma poi vi ricordate quante canzoni stupide, quanti filmazzi idioti, quanta comicità demente c’erano nell’Italia «gramsciana» degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta? Non era anche quella egemonia sottoculturale di massa? E quando Pier Paolo Pasolini voleva spegnere la stupida tv e piangeva le macerie morali e spirituali non c’era ancora la tv commerciale e Berlusconi andava ancora per crociere. E quando Eco scriveva la fenomenologia di Mike Bongiorno non c’era ancora il biscione ma la sua tv era la Rai di Stato. Quanto al gossip il nome è nuovo ma la molla è antica: si chiamava pettegolezzo e una volta si applicava al condominio o al villaggio locale. Ora si applica a internet e al villaggio globale. C’è un degrado? Sì, lo credo anch’io, ma perché discendiamo da quei presupposti e in discesa tutto acquista velocità.
Allora riassumiamo: l’egemonia sottoculturale accompagna la società consumistica di massa dal suo nascere e non è un frutto dell’anomalìa italiana e del berlusconismo. È piuttosto legata al sorgere e allo svilupparsi della tv, all’americanizzazione del mondo, al primato assoluto del vivere e del piacere, del divertirsi e dell’apparire. Sul caso italiano sono anch’io convinto che le tv commerciali abbiano contribuito a involgarire i gusti e i linguaggi, in una gara al ribasso. Ma l’egemonia sottoculturale della volgarità è descritta da Ortega y Gasset, già nel 1930, ne La ribellione delle masse.
Sul caso italiano vorrei infine che fossero considerate tre cose. Uno: quanto ha contato in questa trivializzazione di gusti e linguaggi, l’orda liberatoria del Sessantotto, e il passaggio dalla società inibita e pudica alla società esibizionista e volgare? Due, il Panarari rimpiange il Pci che «teneva sveglia la ragione»; ma quanto ha contato sull’edonismo degli anni Ottanta la voglia di fuggire dagli anni di piombo, dai totalitarismi, i gulag e le persecuzioni, il manicheismo cupo e intollerante degli anni settanta? Non fu una liberazione Drive in, Quelli della notte e loro succedanei, dal peso funesto della storia? E infine: parlate di egemonia sottoculturale; ma la cultura dov’è, come reagisce a questa egemonia, che opere sforna, come sa parlare alla gente, cosa indica di positivo oltre la dissoluzione, il nichilismo, la morte di Dio, della filosofia, della tradizione, della famiglia e della comunità? Non offre nulla. E poi non lamentatevi se qualcuno quel nulla poi lo vuole perlomeno divertente.
È una favola reazionaria per nostalgici progressisti che vagheggiano un mondo che non c’è mai stato. Perché l’egemonia culturale della sinistra c’è stata e c’è ancora, ma non è mai stata egemonia della cultura popolare. È stata ed è un’egemonia che esercita il suo dominio nell’ambito delle minoranze intellettuali e dei poteri culturali; ma non ha mai pervaso il sentire comune. E quando dominava il gramscismo nella cultura, al potere c’era la Democrazia cristiana, il capitalismo degli Agnelli e dei Cuccia, la protezione della Nato. Quando Gramsci andava forte, la cultura popolare del nostro Paese era nelle mani di Mamma Rai di Ettore Bernabei, dei suoi sceneggiati e del suo intrattenimento, di Santa Madre Chiesa con le sue parrocchie e i suoi oratori, e del fantastico mondo di Sanremo, un disco per l’estate, Canzonissima, Miss Italia, tutto il calcio minuto per minuto, la Lotteria e il Lotto. Quando non c’era ancora la De Filippi con la tv berlusconiana c’era la Carrà sulla tv di stato, nel suo viaggio dal tuca tuca a Carramba che sorpresa. Se la tv è oggi quella corrida a cui l’avrebbe ridotta il berlusconismo, secondo Umberto Eco, è perché c’era in Rai la Corrida di Corrado che coglionava i dilettanti allo sbaraglio, alimentando narcisismo e derisione. Quando in tv non c’era Zelig berlusconiano, in Rai c’erano Franco e Ciccio; erano forse più colti e gramsciani? Se la De Filippi evoca in Panarari addirittura Nietzsche, allora Fantozzi è l’erede di Marx. E poi che senso ha attribuire questo mondo alla destra neoliberista: il Gramsci dell’egemonia sottoculturale è stato Maurizio Costanzo, nato e cresciuto in Rai e sdoganatore di opinioni, vizi e gusti «de sinistra», salvo l’ossequio all’editore. Simona Ventura, «la protovelina» per eccellenza secondo Panarari, veicola una sottoideologia antiberlusconiana, vagamente sinistrese. E molti comici e cineasti dell’era volgare berlusconiana sono succedanei gramsciani da sballo.
Alberto Asor Rosa scorge nel Grande Fratello l’ideologia dominante dell’Italia berlusconiana: chi glielo dice al Professore che il format è stato importato dalla progressista Olanda e ha fatto il giro del mondo? Chi glielo dice ai predicatori dell’Italia perduta che Amici, il becero format di Maria De Filippi, non nasce dalle viscere del berlusconismo ma è un format inglese, Pop Idol, importato in tutto il mondo, che va forte anche nell’ex sovietico Kazakistan? O che le telenovelas, la tv dei palestrati e delle rifatte, non vengono fuori dal lifting berlusconiano ma dalla tv sudamericana, colombiana e brasiliana in particolare? E quanto viene attribuito al berlusconismo, da Drive in alle sit com e ai reality, è in realtà made in Usa, cioè figlio dell’internazional-popolare?
Ma poi vi ricordate quante canzoni stupide, quanti filmazzi idioti, quanta comicità demente c’erano nell’Italia «gramsciana» degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta? Non era anche quella egemonia sottoculturale di massa? E quando Pier Paolo Pasolini voleva spegnere la stupida tv e piangeva le macerie morali e spirituali non c’era ancora la tv commerciale e Berlusconi andava ancora per crociere. E quando Eco scriveva la fenomenologia di Mike Bongiorno non c’era ancora il biscione ma la sua tv era la Rai di Stato. Quanto al gossip il nome è nuovo ma la molla è antica: si chiamava pettegolezzo e una volta si applicava al condominio o al villaggio locale. Ora si applica a internet e al villaggio globale. C’è un degrado? Sì, lo credo anch’io, ma perché discendiamo da quei presupposti e in discesa tutto acquista velocità.
Allora riassumiamo: l’egemonia sottoculturale accompagna la società consumistica di massa dal suo nascere e non è un frutto dell’anomalìa italiana e del berlusconismo. È piuttosto legata al sorgere e allo svilupparsi della tv, all’americanizzazione del mondo, al primato assoluto del vivere e del piacere, del divertirsi e dell’apparire. Sul caso italiano sono anch’io convinto che le tv commerciali abbiano contribuito a involgarire i gusti e i linguaggi, in una gara al ribasso. Ma l’egemonia sottoculturale della volgarità è descritta da Ortega y Gasset, già nel 1930, ne La ribellione delle masse.
Sul caso italiano vorrei infine che fossero considerate tre cose. Uno: quanto ha contato in questa trivializzazione di gusti e linguaggi, l’orda liberatoria del Sessantotto, e il passaggio dalla società inibita e pudica alla società esibizionista e volgare? Due, il Panarari rimpiange il Pci che «teneva sveglia la ragione»; ma quanto ha contato sull’edonismo degli anni Ottanta la voglia di fuggire dagli anni di piombo, dai totalitarismi, i gulag e le persecuzioni, il manicheismo cupo e intollerante degli anni settanta? Non fu una liberazione Drive in, Quelli della notte e loro succedanei, dal peso funesto della storia? E infine: parlate di egemonia sottoculturale; ma la cultura dov’è, come reagisce a questa egemonia, che opere sforna, come sa parlare alla gente, cosa indica di positivo oltre la dissoluzione, il nichilismo, la morte di Dio, della filosofia, della tradizione, della famiglia e della comunità? Non offre nulla. E poi non lamentatevi se qualcuno quel nulla poi lo vuole perlomeno divertente.
«Il Giornale» del 5 agosto 2010
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