Vespa e Gabibbo dipinti come profeti del verbo liberista
di Aldo Grasso
Il pamphlet di Massimiliano Panarari che stronca Signorini e Maria De Filippi
Immaginate un plotone, ben equipaggiato e altrettanto ben armato, composto da war veterans come William Shakespeare, Antonio Gramsci, Elio Vittorini, Antonio Banfi. Ludovico Geymonat («Geymonat per noi è un’idea come un’altra...», si cantava un tempo), Marshall McLuhan, Karl Popper, Pier Paolo Pasolini, Marshall Berman, quello del «tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria », Zygmunt Bauman, quello del passo successivo, la Liquid Modernity, il linguista George Lakoff, «il grande avversario teorico di Noam Chomsky», Michel Foucault, Jean-François Lyotard, Jean Baudrillard (poteva mancare Baudrillard?), Guy Debord e la sua «società dello spettacolo», T. W. Adorno e la squadra dei francofortesi, Mikhail Bachtin, Johann Jakob Bachofen, James Frazer, la premiata ditta Deleuze-Guattari (mai capito chi dei due fosse la spalla), George Simmel, «un notevole esegeta del Moderno», persino Stefano Bonaga, definito «filosofo», persino Giulietto Chiesa, colto in questa folgorazione: «(il sistema mediatico è) la grande fabbrica dei sogni e della menzogna» (quasi come le sue corrispondenze dall’Urss). Ebbene immaginate questo plotone, di cui sono stati citati solo i graduati, e neanche tutti, spianare le armi per far fuori Antonio Ricci, Alfonso Signorini, Maria De Filippi, Bruno Vespa e altri eminenti «mostri» del nostro povero universo televisivo.
La sproporzione fra il plotone d’esecuzione e i condannati a morte è così forte da far sorgere qualche sospetto. A scatenare questa holy war contro la tv è il libro di Massimiliano Panarari, L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al Gossip, edito da Einaudi. Il sottotitolo è la versione colta di vecchie sconsolanze pop: «Signora mia, come siamo caduti in basso».
Tanto in basso che il permalosissimo Antonio Ricci se l’è subito presa e ha incaricato il Gabibbo di rispondere per le rime: «Giulio Einaudi non avrebbe mai pubblicato un saggio fast food, non privo di una certa carineria frou frou, ma facilmente smentibile». Cosa ci sia da smentire in una critica non è dato sapere, ma la frase, nel suo appello ai tempi eroici dell’Einaudi, ci aiuta non poco a capire una tendenza attuale della cultura. La potremmo chiamare «nostalgia dell’egemonia» (culturale). E riguarda sia la «vittima» (Ricci) che il «carnefice » (Panarari).
Se ne colgono altri sintomi, in giro: gli stucchevoli dibattiti sul ruolo guida della critica (quella letteraria, ovviamente, le altre non esistono) o sul primato della politica, la rinascita di «Alfabeta2» (già era noiosa e supponente «Alfabeta1», quella fondata da Nanni Balestrini) con la chiara pretesa di indirizzare i lettori nei soli sentieri percorribili dalla Cultura, la sempre più diffusa inquietudine degli orfani del «Politecnico » di Elio Vittorini, la società dei cento autori cinematografici che invoca finanziamenti dallo Stato per il cinema. Manca solo l’appello all’engagement e d’incanto ci ritroveremmo, pur con i lustrini e le paillettes della più aggiornata saggistica postmoderna, in pieno clima anni Sessanta-Settanta. È una nostalgia impegnata ma stracult, l’altra faccia del recupero dei cinepanettoni.
Torniamo alla frase del Gabibbo, per smentirla. Il libro di Panarari è forse l’unico libro einaudiano, in senso storico, pubblicato negli ultimi anni dalla casa editrice di via Biancamano. È un libro ideologico (pur mascherato da una scrittura in simil Berselli), impegnato, deciso a farla finita con personaggi nefasti di cui finora non si era ancora accorto nessuno, o quasi. È un libro che ricorda molto quel clima combattivo e politicizzato evocato da Carlo Fruttero nello strepitoso racconto Night of the Telegram, quando lui e Bollati furono incaricati dal «divo Giulio» di mandare un telegramma all’Onu per protestare contro l’invasione sovietica in Ungheria (1956). In una delle celebri riunioni del mercoledì, pur fra molti distinguo e qualche osservazione per lo stile a tratti troppo disinvolto (per un Cantimori o per un Cases o per un Bobbio), il libro di Panarari avrebbe comunque ottenuto l’imprimatur perché «getta luce sul lato nascosto (e serissimo) della frivola cultura pop in cui siamo immersi». Il paradosso, se mai, è che ora l’Einaudi è di Silvio Berlusconi e, gira e rigira, ci troviamo tutti sotto lo stesso padrone, vittime e carnefici.
Mentre l’autore spara le sue bordate contro l’egemonia sottoculturale, emerge inevitabilmente il fantasma dell’egemonia culturale, di gramsciana memoria. Gramsci? È lui che ci ha spiegato che per egemonia culturale si deve intendere l’imposizione delle rappresentazioni e della visione culturale di un gruppo egemone (quello borghese) agli altri gruppi sociali, fino alla loro interiorizzazione, creando così i presupposti per un complesso sistema di controllo. Gli intellettuali, tutti organici, sotto ogni regime, incaricati di diffondere l’ideologia dominante si chiamano ora Antonio Ricci, Bruno Vespa, Alfonso Signorini e via elencando. Ma, intanto, come ci avverte Maurizio Ferraris, già s’avanza uno strano intellettuale, l’inorganico, cresciuto nel nuovo habitat del Web, «al di fuori dei tradizionali organismi di formazione e di legittimazione della funzione intellettuale che sono stati l’università, i giornali e le case editrici». La grande intuizione di Gramsci (purtroppo ferma allo stadio di intuizione) è stata quella di aver compreso che la rivoluzione marxista era fallita nei Paesi industrializzati perché non aveva fatto i conti con i variegati metodi della diffusione del sapere. Con l’industria culturale, con i media, diremmo oggi.
Già, perché qui emerge un altro significato di egemonia culturale. Ci sarà pure stato un momento in cui quella famosa egemonia, o «dittatura», stava dalla parte giusta e, come si diceva allora, dava la linea, costituiva un punto di riferimento per tutti gli intellettuali impegnati nell’organico. Organici a chi? Ma al Partito, al suo ruolo nella società, alla sua volontà di svecchiamento degli stereotipi e di redenzione delle masse, alla Cultura, al Bene. E se non era il Partito era pur sempre qualcosa che assomigliava all’avvento del Regno Utopico. Com’è noto, finita la guerra, incombevano molti mandati sociali: anche la letteratura e il cinema dovevano servire a costruire il presente, a compromettersi con la realtà, a cambiare il mondo con quella incalzante, salivosa immediatezza che non lascia un attimo di respiro al povero lettore o spettatore in cerca di evasioni.
L’egemonia sottoculturale batte ancora questa strada, ormai asfaltata dalle ultime novità accademiche, politologiche o post-strutturaliste, tutte volte a descrivere e condannare il labile solipsismo in cui ci troviamo. Per esempio, tratteggiare di punto in bianco l’epifania della tv commerciale in Italia senza minimamente analizzare il prima (sia l’evoluzione del mezzo che l’atteggiamento della sinistra nei confronti del medesimo) e il durante (ciò che succedeva in altri Paesi), è un errore metodologico non da poco. Le analisi su Ricci sono in parte condivisibili, specie là dove si sottolinea come «l’appropriazione propagandistica delle parole e dello svuotamento del loro significato, sia una pratica decisamente neoliberale», ma, anche qui, sembra un po’ velleitario sostenere per pagine e pagine che Ricci è un situazionista «venduto al nemico» senza mai dimostrare dove, concretamente, in un programma, emergano le tracce linguistiche dell’appartenenza al gregge di Debord. Invece di spogliare Maria De Filippi, che ha provocato immensi disastri estetici visibili però da tutti gli uomini di buona volontà, non sarebbe stato più corretto utilizzare questo portentoso armamentario teorico per alzare il tiro ed esaminare magari Maurizio Costanzo, in particolare il suo rapporto con la sinistra, con Berlusconi, con le lobby, con l’istituzione, con il trash? Certo Alfonso Signorini ricopre un ruolo cruciale nella stampa popolare, ma contro di lui si può giusto scrivere un articolo su «Vanity Fair»: farne «l’Ur-opinionista dell’Italia contemporanea » e lo stratega del potere berlusconiano pare francamente un’esagerazione (ci sono altri che si sono assunti questo incarico). Per il resto—Simona Ventura, Bruno Vespa, Lele Mora, Fabrizio Corona — siamo un po’ nei luoghi comuni. E se tutta la colpa di questa assenza di impegno, massì di sottocultura, di neoliberalismo, di modernizzazione reazionaria, di imperialismo della neoestetica gay oriented fosse nata da un malinteso, da una incauta interpretazione della famosa «leggerezza» di Italo Calvino?
La sproporzione fra il plotone d’esecuzione e i condannati a morte è così forte da far sorgere qualche sospetto. A scatenare questa holy war contro la tv è il libro di Massimiliano Panarari, L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al Gossip, edito da Einaudi. Il sottotitolo è la versione colta di vecchie sconsolanze pop: «Signora mia, come siamo caduti in basso».
Tanto in basso che il permalosissimo Antonio Ricci se l’è subito presa e ha incaricato il Gabibbo di rispondere per le rime: «Giulio Einaudi non avrebbe mai pubblicato un saggio fast food, non privo di una certa carineria frou frou, ma facilmente smentibile». Cosa ci sia da smentire in una critica non è dato sapere, ma la frase, nel suo appello ai tempi eroici dell’Einaudi, ci aiuta non poco a capire una tendenza attuale della cultura. La potremmo chiamare «nostalgia dell’egemonia» (culturale). E riguarda sia la «vittima» (Ricci) che il «carnefice » (Panarari).
Se ne colgono altri sintomi, in giro: gli stucchevoli dibattiti sul ruolo guida della critica (quella letteraria, ovviamente, le altre non esistono) o sul primato della politica, la rinascita di «Alfabeta2» (già era noiosa e supponente «Alfabeta1», quella fondata da Nanni Balestrini) con la chiara pretesa di indirizzare i lettori nei soli sentieri percorribili dalla Cultura, la sempre più diffusa inquietudine degli orfani del «Politecnico » di Elio Vittorini, la società dei cento autori cinematografici che invoca finanziamenti dallo Stato per il cinema. Manca solo l’appello all’engagement e d’incanto ci ritroveremmo, pur con i lustrini e le paillettes della più aggiornata saggistica postmoderna, in pieno clima anni Sessanta-Settanta. È una nostalgia impegnata ma stracult, l’altra faccia del recupero dei cinepanettoni.
Torniamo alla frase del Gabibbo, per smentirla. Il libro di Panarari è forse l’unico libro einaudiano, in senso storico, pubblicato negli ultimi anni dalla casa editrice di via Biancamano. È un libro ideologico (pur mascherato da una scrittura in simil Berselli), impegnato, deciso a farla finita con personaggi nefasti di cui finora non si era ancora accorto nessuno, o quasi. È un libro che ricorda molto quel clima combattivo e politicizzato evocato da Carlo Fruttero nello strepitoso racconto Night of the Telegram, quando lui e Bollati furono incaricati dal «divo Giulio» di mandare un telegramma all’Onu per protestare contro l’invasione sovietica in Ungheria (1956). In una delle celebri riunioni del mercoledì, pur fra molti distinguo e qualche osservazione per lo stile a tratti troppo disinvolto (per un Cantimori o per un Cases o per un Bobbio), il libro di Panarari avrebbe comunque ottenuto l’imprimatur perché «getta luce sul lato nascosto (e serissimo) della frivola cultura pop in cui siamo immersi». Il paradosso, se mai, è che ora l’Einaudi è di Silvio Berlusconi e, gira e rigira, ci troviamo tutti sotto lo stesso padrone, vittime e carnefici.
Mentre l’autore spara le sue bordate contro l’egemonia sottoculturale, emerge inevitabilmente il fantasma dell’egemonia culturale, di gramsciana memoria. Gramsci? È lui che ci ha spiegato che per egemonia culturale si deve intendere l’imposizione delle rappresentazioni e della visione culturale di un gruppo egemone (quello borghese) agli altri gruppi sociali, fino alla loro interiorizzazione, creando così i presupposti per un complesso sistema di controllo. Gli intellettuali, tutti organici, sotto ogni regime, incaricati di diffondere l’ideologia dominante si chiamano ora Antonio Ricci, Bruno Vespa, Alfonso Signorini e via elencando. Ma, intanto, come ci avverte Maurizio Ferraris, già s’avanza uno strano intellettuale, l’inorganico, cresciuto nel nuovo habitat del Web, «al di fuori dei tradizionali organismi di formazione e di legittimazione della funzione intellettuale che sono stati l’università, i giornali e le case editrici». La grande intuizione di Gramsci (purtroppo ferma allo stadio di intuizione) è stata quella di aver compreso che la rivoluzione marxista era fallita nei Paesi industrializzati perché non aveva fatto i conti con i variegati metodi della diffusione del sapere. Con l’industria culturale, con i media, diremmo oggi.
Già, perché qui emerge un altro significato di egemonia culturale. Ci sarà pure stato un momento in cui quella famosa egemonia, o «dittatura», stava dalla parte giusta e, come si diceva allora, dava la linea, costituiva un punto di riferimento per tutti gli intellettuali impegnati nell’organico. Organici a chi? Ma al Partito, al suo ruolo nella società, alla sua volontà di svecchiamento degli stereotipi e di redenzione delle masse, alla Cultura, al Bene. E se non era il Partito era pur sempre qualcosa che assomigliava all’avvento del Regno Utopico. Com’è noto, finita la guerra, incombevano molti mandati sociali: anche la letteratura e il cinema dovevano servire a costruire il presente, a compromettersi con la realtà, a cambiare il mondo con quella incalzante, salivosa immediatezza che non lascia un attimo di respiro al povero lettore o spettatore in cerca di evasioni.
L’egemonia sottoculturale batte ancora questa strada, ormai asfaltata dalle ultime novità accademiche, politologiche o post-strutturaliste, tutte volte a descrivere e condannare il labile solipsismo in cui ci troviamo. Per esempio, tratteggiare di punto in bianco l’epifania della tv commerciale in Italia senza minimamente analizzare il prima (sia l’evoluzione del mezzo che l’atteggiamento della sinistra nei confronti del medesimo) e il durante (ciò che succedeva in altri Paesi), è un errore metodologico non da poco. Le analisi su Ricci sono in parte condivisibili, specie là dove si sottolinea come «l’appropriazione propagandistica delle parole e dello svuotamento del loro significato, sia una pratica decisamente neoliberale», ma, anche qui, sembra un po’ velleitario sostenere per pagine e pagine che Ricci è un situazionista «venduto al nemico» senza mai dimostrare dove, concretamente, in un programma, emergano le tracce linguistiche dell’appartenenza al gregge di Debord. Invece di spogliare Maria De Filippi, che ha provocato immensi disastri estetici visibili però da tutti gli uomini di buona volontà, non sarebbe stato più corretto utilizzare questo portentoso armamentario teorico per alzare il tiro ed esaminare magari Maurizio Costanzo, in particolare il suo rapporto con la sinistra, con Berlusconi, con le lobby, con l’istituzione, con il trash? Certo Alfonso Signorini ricopre un ruolo cruciale nella stampa popolare, ma contro di lui si può giusto scrivere un articolo su «Vanity Fair»: farne «l’Ur-opinionista dell’Italia contemporanea » e lo stratega del potere berlusconiano pare francamente un’esagerazione (ci sono altri che si sono assunti questo incarico). Per il resto—Simona Ventura, Bruno Vespa, Lele Mora, Fabrizio Corona — siamo un po’ nei luoghi comuni. E se tutta la colpa di questa assenza di impegno, massì di sottocultura, di neoliberalismo, di modernizzazione reazionaria, di imperialismo della neoestetica gay oriented fosse nata da un malinteso, da una incauta interpretazione della famosa «leggerezza» di Italo Calvino?
Il saggio
L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip (Einaudi, pp. 145, € 16,50) è il titolo del libro in cui Massimiliano Panarari cerca di gettare uno sguardo sul lato nascosto della frivolezza contemporanea.
L’autore, che insegna Analisi del linguaggio politico all’Università di Modena e Reggio Emilia, aveva già trattato questi temi in un articolo intitolato Fenomenologia di Alfonso Signorini, pubblicato nell’autunno del 2009 sulla rivista «Il Mulino».
Panarari ritiene che la nuova dimensione del nazionalpopolare si esprima in programmi televisivi come «Striscia la notizia» e «Amici», oppure in riviste come «Chi».
Opporsi alla visione del mondo veicolata dai media commerciali è, secondo Panarari, «un imperativo morale»
«Corriere della Sera» del 23 agosto 2010
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